La violinista di Chagall, la ballerina del Trocadéro e altre acrobazie

I giocolieri ai semafori sono allievi della scuola di circo. Il numero di maggior successo è quello con la palla fatta volare sulla cima di un lungo bastone, il bastone viene poi poggiato sulla fronte e la palla è tenuta in equilibrio fino a quando non sta per scattare il verde per le automobili. Nel residuo di rosso, il giocoliere riprende al volo la palla con una mano e con l’altra raccoglie le offerte in un berretto morbido. Anche le clave sono molto usate, come le palline: sono sempre in numero di tre, sia le clave sia le palline. Che sono allievi della scuola di circo te lo ha detto una tua amica ballerina. Così fanno esercizio e racimolano un po’ di soldi. Non hanno bisogno di quel denaro, hanno una casa, una famiglia, ma un po’ di soldi extra non sono mai in più. L’uomo magro a torso nudo che faceva roteare due corde infuocate che scrivevano parole luminose nella sera ormai notte di certo aveva fame. «Le vostre offerte sono la sola nostra fonte di reddito», diceva in una pausa tra una prodezza e l’altra. Insieme a lui una ragazza con gli anfibi di vinile colorati da una bomboletta a spray e la pancia scoperta metteva la musica su uno stereo portatile di plastica scrostata della vernice nera. «Spero che questa esibizione vi dia un po’ di gioia e diverta i vostri bambini», continuava lui. «Grazie per la vostra generosità». Forse il loro circo aveva fallito. Forse non venivano da nessun circo. Le scie di fuoco, a pochi metri di distanza da te, che ti eri avvicinato per vedere meglio, aprivano il fresco della sera con vampate di un caldo rassicurante e triste al contempo, carezzando il tuo volto. Ricordi le esibizioni circensi viste da bambino e la trapezista con gli slip pieni di brillantini che le lasciavano scoperti i glutei sodi. Lo stesso calore sulle tue guance, quando lei ti ha guardato. Gli zigomi alti come quelli di Solveig Dommartin, ti saresti innamorato dell’attrice francese come Bruno Ganz nel Cielo sopra Berlino, il film di Wim Wenders: l’angelo Damiel innamorato della trapezista Marion. Ti eri innamorato dell’acrobata dal piccolo costume luminoso. Quando ti sei fermato a guardare la funambola impegnata nel suo numero di alta acrobazia, era mattina, era un altro giorno, un luogo diverso, altra città, altro tempo, poco tempo fa. La corda le rigava le piante dei piedi scalzi, le dita la stringevano qualche istante e la rilasciavano per il passo successivo. L’ombrellino in una mano oscillava come il suo corpo intento a mantenere l’equilibrio. Cadde due tre volte, ma la fune era a neanche un metro d’altezza, così risaliva per raggiungere il capo opposto del suo esile e robusto palcoscenico. Per un attimo hai pensato al funambolo amante del vecchio scrittore e ladro francese. Per l’ex galeotto che gli faceva da maestro e lo sfiancava nell’addestramento, il giovane acrobata semianalfabeta e bellissimo si ruppe un ginocchio, la sua promettente carriera al circo Orfei era finita. Finita la sua vita quando si riempì di barbiturici e imbrattò del sangue delle proprie vene lacerate le pagine dei libri del pigmalione che lo aveva abbandonato per avviare a un brillante futuro da pilota di automobili da corsa il suo nuovo amante. Gli aveva comprato una Lotus. Poi inciampò, non aveva acceso la luce e l’anziano scrittore inciampò sul gradino tra la camera da letto e il bagno del Jack’s hotel nel 13e arrondissement. E tu pensi che questa non fosse altro che la sfortunata conclusione di un altro esercizio nello sgangherato circo del senso di colpa, senza insegna luminosa, senza pubblico, quell’ultima notte a un passo dal mattino, troppo tardi per gli applausi: un numero acrobatico finito male, tutto qui, niente di eccezionale. In equilibrio sullo scalino, gli occhi accecati dal buio della camera angusta come una cella del penitenziario, Jean Genet, consumato e fiaccato dal cancro, cadde da un rimorso più alto della Torre Eiffel. Più freddo dei muri del carcere de La Santé. È stato un pensiero anch’esso in equilibrio sulla malinconia, per non precipitare hai guardato ancora la funambola tentare di arrivare alla fine del suo numero.
I musicisti che suonano in strada invece non credi che siano tutti allievi del conservatorio. Molti non sanno suonare e i loro abiti dichiarano povertà. Di solito sostano su qualche marciapiede con gli strumenti vecchi per guadagnare la giornata e mangiare. Ma la ragazza che suonava quella sera a Via del Corso non sembrava far parte di questi musicisti sfortunati. Il suo vestito era di buona fattura, nuovo e pulito. Anche lei era pulita e ben pettinata, un fermaglio tra i capelli e scarpe da tennis bianche e gialle linde. Il violino era un ottimo strumento e lei lo suonava bene. Un pezzo di musica classica che non hai riconosciuto ma davvero ben eseguito. I negozi avevano chiuso già da un po’ e la grande strada del centro storico era pressoché deserta, a parte qualche piccolo gruppo di ragazzi che si dirigeva verso le stazioni della metropolitana e alcuni residenti in uscita serale per il gelato, nessuno si fermava ad ascoltarla, se non qualche veloce occhiata. Lei non pareva preoccuparsene: continuava a suonare nonostante i passanti non le dessero più niente. Suonava per il piacere di farlo o perché doveva portare a termine la sua esibizione, per esercitarsi e perché riteneva giusto così. Avrebbe suonato anche se in quella strada non fosse passata neppure una persona, anche nella città tutta chiusa in casa. Anche con il coprifuoco e durante la finale dei mondiali di calcio trasmessa in diretta TV. Sembrava La Violinista di Marc Chagall nella sua dimensione fantastica. La stessa attitudine di una danzatrice che avevi visto alcuni giorni prima a Parigi. Un’immagine ti riporta a un’altra e nel cinema dei tuoi ricordi tutti ormai hanno lasciato la sala. La ballerina non aveva scarpe candide ma era a piedi nudi, sporchi dello spiazzale dove si esibiva, uno era fasciato, sporca anche la fascia bianca stretta sul piede, era di certo una ballerina dalla formazione accademica, lo capivi dai movimenti studiati e precisi, i suoi piedi erano rovinati, le unghie degli alluci spezzate, eppure hai pensato che quei piedi fossero più belli di quelli della Femme sotto il Palais de Chaillot. Lei più bella della statua di Daniel-Joseph Bacqué. La lunga gonna gitana le sfiorava le caviglie e i suoi passi davano alla scena un carattere espressionista. Il berretto per raccogliere le offerte, grigio con la fodera bordeaux, era in tema. Tutto era perfetto. Sia le scarpe pulite della violinista sia i piedi impolverati della ballerina erano funzionali alla scena, era circa mezzogiorno e la ballerina aveva il suo pubblico, sei comunque convinto che anche lei avrebbe fatto il proprio numero in una piazza deserta. Era accompagnata da un ragazzo che suonava il violino. Pure lui, di certo, aveva fatto studi regolari. Non sai se è stato il suono dello stesso strumento o i piedi a farti pensare alla ballerina della Esplanade du Trocadéro. C’era tanta gente all’apparenza felice e abbagliata dal sole di settembre nel piazzale monumentale sulla riva destra della Senna, mentre ora qui i negozi chiusi manifestano la violenza delle assenze, di quando te ne vai da lì perché lì, ormai, che ci stai ancora a fare, è tutto così desolato, la strada, anche l’aria esprime desolazione e smarrimento. È una violenza snervata, esangue. È così diverso dalle sere, d’estate e d’inverno, quando l’andavi a prendere nella palestra dove insegnava pilates: era a Via Bocca di Leone, a Roma. Sul muro rosa dell’edificio che la ospitava nel seminterrato, sopra la boutique di Battistoni, tra due finestre dalle persiane marroni, c’è una targa di marmo bianco in ricordo di Ingeborg Bachmann che aveva abitato al numero civico 60 dal 1966 al 1971. Poi si trasferì in un condominio poco distante da lì, a Via Giulia 66, nella stessa via dove al 102 aveva già vissuto con lo scrittore e architetto Max Frisch, e in questa nuova residenza, i primi di ottobre del 1973, il rogo dei suoi abiti causato dalla sigaretta accesa mentre si era addormentata in seguito a una forte ingestione di barbiturici e alcol, l’avrebbe portata alla morte due settimane dopo all’ospedale Sant’Eugenio. Si è parlato di suicidio. Non aveva dimenticato quello del suo grande amore, il poeta Paul Celan gettatosi nella Senna dal ponte Mirabeau, e come avrebbe potuto, erano passati solo tre anni da quel gesto, anche se si erano ormai lasciati da oltre venti: la notizia della sua morte la sconvolse. A volte non ci riesci proprio a mantenere l’equilibrio, ti arrendi al sonno nel tepore di una sigaretta. «Vienimi a trovare», diceva ai pochi amici. «Mi venga a trovare», a qualche conoscente. Era molto sola. Tu però, aspettando lei, che usciva con la sua grande borsa con dentro gli abiti della lezione zuppi e il miglior sorriso, non ti sentivi solo. Nell’attesa ti fermavi a guardare le vetrine dei negozi di alta moda e accessori, Zadig & Voltaire, Celine, Genny, Hermès, poi l’accompagnavi a casa passeggiando per la strada dove ora sta suonando la ragazza dalle scarpe bicolore e l’abitino con i disegni in tinta. Il più delle volte eravate allegri. All’improvviso, quasi all’improvviso, provi un senso di afflizione per quel ricordo che è solo un ricordo. Anche se adesso c’è la violinista di Chagall e il ricordo della ballerina del Trocadéro, della funambola – come quella ballerina, anche lei aveva danzato un paio di volte in strada, un pomeriggio si ferì un piede con i sampietrini scheggiati e, mentre glielo medicavi, per il bruciore ti stringeva la spalla con una mano. Piangeva. Non per il dolore, solo per quel movimento scomposto arrivato proprio alla fine. Ultimato il suo concerto solitario, la ragazza si è abbassata sulla custodia che aveva davanti a sé e vi ha sistemato con cura il violino e l’archetto. L’attenzione che fosse tutto in ordine. La commessa di un negozio di vestiti di Via del Pellegrino, qualche ora prima, stava disponendo delle piantine in un secchio di plastica rosso come il suo corpetto e in due innaffiatoi di metallo dello stesso colore della gonna: azzurri. Concentrata nel suo compito delicato, preciso e fantasioso per via dell’eccentrica, anche se ovvia, collocazione davanti alle vetrine della boutique con gli abiti sui toni dell’arancio, del marrone e del blu. Altri piccoli vasi erano appesi alle grate di ferro che dovevano proteggere il locale dopo la chiusura. Hai seguito le sue azioni fino a quando non è rientrata nella bottega. Soddisfatta delle proprie piante. Per le giovani donne ogni gesto doveva avere la sua importanza. La violinista ha contato le monete che i passanti le avevano lasciato nel pomeriggio e le ha messe in un borsellino. Le è arrivato un messaggio sul cellulare, lo ha letto e ha risposto, accennando ogni tanto un sorriso mentre scriveva. Quindi ha chiuso la custodia e messo il portamonete e il telefono nella borsa, si è alzata e se ne è andata, senza guardarsi intorno. È stato in quel momento che hai notato in lei qualcosa di triste e dimesso. Non sai se nel suo sguardo, nella sua camminata con l’astuccio in una mano, nel suo abito, nelle scarpe: tutto sembrava come prima eppure c’era qualcosa di diverso e quasi struggente. Anche tu hai riposto la tua macchina fotografica nello zaino, dopo aver dato un’occhiata all’ultima foto che le avevi scattato. Quando hai rialzato lo sguardo, la musicista non c’era più. Non le avevi neanche dato qualcosa e detto che era brava. Hai sperato che si fosse infilata in una delle strade adiacenti e fosse entrata in uno di quei palazzi di gente agiata. Che avesse un balcone sopra una via elegante e negozi chic.
La funambola riuscì a concludere il suo numero senza cadere neppure una volta. Le hai fatto un applauso e lei ti ha sorriso, dopo un bell’inchino. Ha chiuso l’ombrello.