La vita facile

Quando ero ragazzo e pensavo a come sarei stato da vecchio non mi immaginavo così. Ho sessantasette anni, i capelli grigi tagliati corti, sopracciglia troppo folte e occhiali con la montatura d’osso.
Oltretutto ho la pancia. All’inizio non mi davo pace: mi ero comprato una cyclette da tenere in camera e ogni sera, prima di andare a dormire, pedalavo per mezzora mentre mia moglie rideva chiamandomi Coppi e incitandomi a salire lo Stelvio.
Ho sposato la mia vicina di casa, nonché compagna di giochi durante l’infanzia, una ragazza semplice, di altri tempi, che sembra uscita da un film neorealista. A volte glielo dico, ma lei pensa alla Loren e crede che la prenda in giro. Io immagino più una comparsa di un film De Sica-Zavattini, ma questo non lo dico.
Si chiama Marta e, cinefilia a parte, mi è sempre piaciuta per la sua allegria.
Non abbiamo avuto figli, così quando sono andato in pensione ho lasciato il negozio – la ferramenta che era stata di mio padre, e di mio nonno prima ancora – a un nipote che ha accettato volentieri l’eredità. Non molto sveglio il ragazzo, a essere sinceri. Gli piace fare battute stupide e fissare le tette delle clienti mentre dà consigli sulle lampadine a risparmio energetico.
Ho frequentato il liceo della mia città, non perché avessi velleità culturali (“È intelligente, ma non si applica”, ripetevano gli insegnanti a mia madre) ma perché era la scuola più vicina a casa, ho sposato la prima fidanzatina, ho portato avanti l’attività di famiglia. Se dovessi riassumere la mia esistenza, non avrei altro da aggiungere.
Di per sé la mia vita scorre immutata da sempre, passano i giorni, le settimane, i mesi senza farmi preoccupare troppo. Ma oggi è giovedì. E ogni giovedì pomeriggio, da quasi vent’anni, dico di andare in magazzino per l’inventario e per certi lavoretti non meglio definiti, invece incontro la mia amante.
“La mia amante” è un termine che fa uno strano effetto, dà alla faccenda i connotati di un romanzo per signore. Ogni giovedì vado a casa di un’ex insegnante zitella e facciamo l’amore sui cuscini ricamati del suo divano. In realtà negli ultimi tempi il più delle volte ci limitiamo a chiacchierare bevendo del tè.

Il giovedì mattina mi sveglio sempre qualche secondo prima che suoni la sveglia. Mi rado con cura e metto una goccia in più di colonia.
“Vieni a vedere le giunchiglie, sono una meraviglia”, grida Marta dal balcone. Ha sempre avuto una voce molto bella secondo me, che con l’età si è fatta più acuta, come le note di un clarinetto. Do un’occhiata e mi rimetto a leggere.
Mangiamo sempre a orari ben precisi, dal giorno dopo il nostro matrimonio (non siamo stati in luna di miele, non si usava). Mia moglie è una cuoca discreta. Ultimamente ha seguito un corso, giù al Centro Anziani, Cucina etnica per cuoche italiane o qualcosa del genere. Da allora in casa nostra c’è un odore di spezie e di altri ingredienti che non avevo mai sentito nominare.
Dopo pranzo Marta va a riposare. Lei dice che si sdraia solo e guarda un filmetto, in realtà la sento che russa già durante la sigla.
Mi prepara sul tavolo le chiavi del magazzino e una lista con le cose che le servono: Lampadina per l’abat-jour della cameretta, fil di ferro, pile per il telecomando. Lettere strette tracciate con precisione. Le aste delle effe troppo lunghe toccano la parola che sta sotto.
Esco di casa fischiettando perché oggi sono parecchio allegro. È una bella giornata d’inverno senza una nuvola in cielo. Attraverso via Gramsci fuori dalle strisce, accelero il passo a due metri dal marciapiede per evitare un SUV bianco che scende di corsa verso il lago.
Mi fermo all’edicola all’angolo con via Roma. Mi frugo in tasca ma mi accorgo di non avere moneta. Siccome non sono neanche particolarmente interessato a cosa succede oggi nel mondo faccio dietrofront rimettendomi a fischiare. La giornalaia mi lancia uno sguardo divertito, poi riprende in mano le parole crociate.
Passo davanti ai negozi ancora chiusi ˗ agenzie immobiliari, profumerie, ristoranti ˗ che si susseguono uno dietro l’altro fino alla piazza. Poi m’infilo sotto i portici e giro a destra nel vicolo dopo la cartoleria. Clara abita qui. Due colpi di citofono, apre il portone senza rispondere.
La porta d’ingresso è socchiusa, mormoro un “Permesso” di cortesia. Lei mi aspetta dietro la porta avvolta in una vestaglia azzurra.
“Buongiorno Clara.”
“Buongiorno”, la sua dentiera mi lancia un sorriso discreto. “Come sta? Si è poi rimesso?”
“Oh sì, sì, era solo un raffreddore … ora sto davvero bene.”
“Vuole del tè?”
“Volentieri.”
La seguo in cucina e la guardo accendere il fuoco sul fornello scrostato, accarezzo la nuca di capelli bianchi quando le passo vicino per andare a sedermi a capotavola.
“Fa fresco fuori?”
Borbotto qualcosa e aspetto il fischio del bollitore. Clara sta sempre in piedi vicino ai fornelli. Stiamo zitti, oppure ci diciamo cose di così poca importanza che è come stare zitti.
Poi lei versa il tè con un gesto lentissimo e appoggia le due tazze di porcellana una accanto all’altra sul piano in formica. Dopo essersi seduta con altrettanta lentezza, mi fa segno di prendere una tazza.
“Lo conosce Marino?”
“Qualcosa”, farfuglio tenendo gli occhi sulla tazza, come se stessi cercando qualcosa dentro il liquido scuro.
“Sa che l’Adone è il poema più lungo della letteratura italiana?”
“Ah…”
“Più lungo della Divina Commedia perfino!”
“Non lo sapevo”, prendo un altro sorso di quel tè privo di qualsiasi sapore, a parte il ricordo vaghissimo del limone.
“Eh sì…” Clara invece guarda qualcosa di lontano, oltre il tavolo. “Marino si vantava di aver superato Dante, almeno in lunghezza.”
“Di…di cosa parla?”
Mi fissa come se l’avessi svegliata di colpo da un sogno bellissimo e risponde secca, “D’amore.”
Raccoglie le tazze vuote e le appoggia nel lavello. Io non accenno neanche un gesto d’aiuto. Mentre aspetto mi accorgo che ho le unghie sporche. Provo a pulirle nello spigolo del tavolo ma non è abbastanza appuntito.
Quando finisce di risciacquare le stoviglie, chiude il rubinetto avvitandolo ben stretto. A quel segnale mi alzo in piedi e la precedo in soggiorno.
Clara mi raggiunge dopo pochi attimi, si china sul televisore per accenderlo. La vestaglia si solleva di qualche centimetro mostrando l’orlo della sottoveste e un minuscolo buco nella calza – poco più grande di una puntina – all’altezza della piega del ginocchio.
Nell’ora successiva stiamo seduti sul divano a guardare un vecchio film in bianco e nero. Su questo stesso film, probabilmente, è sintonizzato il televisore davanti al quale Marta dorme.
Mentre cerco la mano di Clara tra i cuscini ricamati e le pieghe dei suoi vestiti, prego che non si accorga dei piccoli grumi di sporcizia dietro le mie unghie. Lei è sempre così pulita, sembra un’infermiera a inizio turno. La stanza odora di disinfettante e candeggina, ma dopo un po’ ho smesso di farci caso.
Le tengo la mano, ogni tanto la porto alle labbra e la sfioro soltanto, così lievemente che non se ne accorge nemmeno. Appena cominciano i titoli di coda, click, spegne il televisore e nella stanza torna silenzio.
Capisco che è il momento di congedarmi (che parola formale! Ogni giovedì formiamo un bel quadretto borghese, Clara e io). Lei come al solito mi accompagna fino all’ingresso.
“Non venga la settimana prossima. Arrivano i miei cugini da Trieste. Sa, gli faccio fare un giro del lago”, mi dice con aria colpevole.
“Speriamo ci sia bel tempo.”
“Speriamo.”
Mi accorgo allora che è scalza. Non so perché, ma trovo tenera l’idea di una vecchietta che accompagna l’innamorato fin sulla soglia, tastando il pavimento con il piede nudo. Perciò la bacio con un certo ardore, congedandomi.
Appena uscito dal portone, una folata di vento mi s’infila sotto il cappotto. Rabbrividisco. Sta cambiando il tempo. Mi sento molto meno allegro di prima. Faccio un paio di passi ma i piedi rispondono ai comandi del cervello con qualche secondo di ritardo, come se fossero appesantiti dal resto del corpo. Sarò un po’ meteoropatico, o forse è un problema di digestione.
Cammino lentamente fino al minimarket dove compro gli oggetti che Marta ha segnato sulla lista. Appena supero le porte scorrevoli, un getto di aria calda sparato dall’alto quasi mi fa perdere l’equilibrio. Mi aggrappo a uno scaffale e rimango immobile per alcuni secondi fissando le creme solari. Intanto i miei occhi si abituano ai neon.
Non mi piacciono i supermercati, hanno queste luci accecanti che vi fanno venire voglia di starci il meno possibile.
Trovo quello che mi serve e mi metto in coda alla cassa rapida, dietro una donna incinta e a un signore che non deve avere ben chiaro il concetto di Massimo 5 articoli.
In fondo al nastro trasportatore è seduta una ragazzina con i capelli biondi ossigenati. Mastica una gomma con la bocca spalancata. Avrà diciott’anni ma ne dimostra quindici.
Dopo una sequenza interminabile di bip, la biondina biascica l’importo all’uomo che mi precede, senza sgridarlo per l’errore.
Tocca a me.
“Buon pomeriggio!” dico a voce un po’ troppo alta.
La biondina alza lo sguardo svogliato e fa una smorfia che io interpreto come un sorriso. Mi sforzo di leggere il suo nome sul cartellino, ma vedo solo una G maiuscola.
Bip bip bip.
“Nove euro e settanta.”
G. si passa le dita lungo la ricrescita nera, e io lo interpreto come un saluto.
Ripongo i miei acquisti in un sacchetto di plastica senza logo che mi sono portato da casa e lascio cadere per terra lo scontrino.
Di nuovo in strada, mi perdo in fantasie su una mia possibile relazione con una ballerina di striptease con i capelli ossigenati come G., ma meno malmostosa. Poi mi chiedo cosa ci sarà per cena.
Arrivo a casa che è quasi buio. Il ragazzino del piano di sotto mi tiene aperto il portoncino. Lo ringrazio con un sorriso paterno.
Faccio tutti i tre piani di scale a piedi nonostante il fiatone e la sensazione di avere il cuore in gola che mi accompagnano già dopo la prima rampa.
“Eccomi!”
“Come è andata?” mi urla Marta dalla cucina.
“Bene.”
“Hai preso quello che ti ho chiesto?”
Appoggio rumorosamente la busta di plastica sul tavolo, come a dire sì. Poi metto una mano in tasca per prendere le chiavi del magazzino.
Non ci sono.
Cerco nei pantaloni, nella giacca, tasche interne ed esterne. Dio fa’ che Marta non esca dalla cucina in questo momento, che non mi chieda cosa cerco.
Tolgo la giacca e la stendo sul tavolo, passando il palmo della mano avanti e indietro sulla fodera interna. Niente.
Le ho lasciate da Clara? Impossibile, se ne sarebbe accorta, lei vede tutto con quei suoi occhietti da topolino.
Essere scoperto così, dopo vent’anni di impunità! Mi viene di nuovo il fiatone, di nuovo il cuore in gola, inizia a sudarmi la fronte, goccioline immobili e fredde.
Forse mi sono cadute al supermercato? Mentre tiravo fuori il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni e come uno scemo cercavo di intercettare lo sguardo della cassiera?
Non mi ricordo, Cristo! Non mi ricordo!
Immagino in un lampo le conseguenze: simulare sensi di colpa, litigi, forse il divorzio. O peggio, il perdono. E tutti i giorni della settimana che diventano davvero uguali.
Mi gira la testa, slaccio i primi due bottoni della camicia. Inspira, espira, inspira, espira.
E a un tratto mi accorgo che le chiavi sono proprio davanti a me, appese sopra la mensola dell’ingresso. Lì dove sono sempre. Tranne il giovedì.