L’attualità della “rivoluzione copernicana” di Gaetano Salvemini
A cavallo tra Otto e Novecento, nel drammatico tornante degli anni della “crisi di fine secolo”, mentre a Milano tra il 6 e il 9 maggio 1898 le truppe del regio esercito italiano comandate dal generale Bava Beccaris prendono a cannonate le inermi masse popolari che protestano per l’aumento del prezzo del pane, cannonate a cui il 29 luglio 1900 faranno seguito i colpi di pistola che l’anarchico Gaetano Bresci esplode contro il re Umberto I, il dibattito sulla questione meridionale, da un lato, si arricchisce di nuovi contributi critici (ad esempio, quelli offerti dal repubblicano Napoleone Colajanni, dal liberista Antonio de Viti de Marco, dal socialista Ettore Ciccotti e dal democratico Francesco Saverio Nitti), dall’altro, si inasprisce, assumendo una connotazione sempre più territoriale.
Infatti, nello stesso tornante storico, la scuola antropologico-criminale di Cesare Lombroso presume di dare un fondamento scientifico ai pregiudizi antimeridionali attraverso la teoria delle due civiltà, superiore al Nord ed inferiore al Sud, sulla cui base, il criminologo, antropologo e statistico Alfredo Niceforo giunge a proporre per le due Italie
[…] un adatto e speciale metodo razionale di governo e di trattamento: un decentramento inteso nel più lato senso della parola, che non abbia a turbare la nostra unità politica e nazionale e che permetta a ciascuna parte d’Italia un regime speciale e confacente di governo. (A. Niceforo, Italiani del Nord e Italiani del Sud, F.lli Bocca, Torino, 1901, p. 18). In modo tale che “[…] da una parte – al Sud – il regime governativo deve tendere a civilizzare e a togliere dalle mani di autonomie locali inadatte al self governement le redini di amministrazioni libere alle quali non sono mature; dall’altra – al Nord – concedere ampie libertà di evoluzione e di azione autonoma. A guisa che l’individuo, finché è bimbo, ha bisogno di guida e di maestro, ma quando ha raggiunto il suo pieno sviluppo, la più ampia libertà e condizione di miglioramento e di azione sana e proficua, così le società ancora bimbe e primitive hanno ancora bisogno dell’azione energica e qualche volta dittatoriale di chi le strappi dalle tenebre, mentre le società evolute, sviluppate per contro, hanno la necessità della più grande libertà e della più sana autonomia”. (A. Niceforo, Italiani del Nord e Italiani del Sud, F.lli Bocca, Torino, 1901, p. 297)
È in questo contesto che un giovane socialista, allora sconosciuto docente di liceo, apporta al dibattito sulla questione meridionale un’innovazione radicale, un vero e proprio salto di paradigma, che, successivamente, verrà ripreso ed ulteriormente approfondito e sviluppato da Antonio Gramsci, “[…] col suo aver posto la politicizzazione delle masse meridionali quale vera base per la rinascita del Sud Italia”. (M.L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Einaudi, Torino, 1981, pp. 288-289)
Si tratta di Gaetano Salvemini, che, già allievo del meridionalista liberale Pasquale Villari presso l’Istituto Superiore degli Studi di Firenze, dopo avere esordito tra il 1° marzo ed il 1° aprile del 1897 nella pubblicistica relativa al divario Nord-Sud pubblicando sulla rivista “Critica sociale” diretta da Filippo Turati e da Anna Kuliscioff un articolo dal titolo Un Comune dell’Italia meridionale: Molfetta, successivamente, tra il 25 dicembre 1898 ed il 14 marzo 1899, pubblica sulla rivista “Educazione politica” di Arcangelo Ghilseri il saggio La questione meridionale, che, appunto, segna l’inizio di una nuova fase nella storia del dibattito meridionalista in quanto, sulla base della lezione di Karl Marx ed Antonio Labriola, Salvemini attua quella che può essere definita una vera e propria “rivoluzione copernicana”, in quanto, criticando i meridionalisti liberali, egli propone di fondare il riscatto del Mezzogiorno non sulla centralità del cosa fare, bensì su quella del chi deve fare cosa, non sul considerare le masse rurali l’oggetto di riforme calate paternalisticamente dall’alto al fine di estendere la base di consenso sociale dello Stato monarchico-liberale, ma, al contrario, nel considerare il bracciantato agricolo meridionale in alleanza con la classe operaia settentrionale il soggetto cui fare leva per avviare la trasformazione radicale degli assetti sociali, economici, politici e culturali dell’Italia in senso repubblicano, democratico e socialista.
Dopo avere descritto le tre “malattie” di cui, secondo Salvemini, soffre il Mezzogiorno – lo Stato accentratore, l’oppressione economica esercitata dal Nord suoi confronti, la sua struttura sociale semifeudale –, lo studioso pugliese osserva che se “[… ] finora sono stati studiati benissimo i rimedi, non sia stato ancora detto chi rimedierà” (G. Salvemini, “La questione meridionale”, in Id., Scritti sulla questione meridionale (1896-1955), Einaudi, Torino 1955, p. 36), in quanto, a suo parere:
In generale gli studiosi del problema meridionale questa domanda o non se la metton mai o rispondono subito con una parola bisillaba: lo Stato! Quando han così risposto, credono di avere accomodato tutto; e buttan fuori delle eloquenti concioni sul dovere, che ha lo Stato di tendere finalmente giustizia a quelle popolazioni nobili patriottiche, ecc. E lo stato fa il sordo. E gli studiosi continuano nelle loro concioni eloquentissime. (G. Salvemini, op. cit., p. 36)
Di contro all’impostazione astratta in termini politici che gli studiosi di orientamento liberale e democratico avevano dato alla soluzione della questione meridionale, Salvemini evidenzia che
[…] la questione non istà nel decidere se le riforme le farà lo Stato presente, oppure se le farà un altro stato sostituitosi al presente […]. Sta piuttosto nel sapere se esista nell’Italia meridionale una forza capace di attuare – con o senza violenza, poco importa – le riforme da tutti ritenute necessarie. Datemi un punto d’appoggio, diceva Archimede, e vi solleverò il mondo; ma il punto d’appoggio non lo trovò mai e il mondo se ne rimase tranquillo al suo posto. C’è nell’Italia meridionale un punto d’appoggio, su cui si possa far leva per sollevare il mondo sociale? (G. Salvemini, op. cit., pp. 37)
Dichiarando la sua adesione alla concezione materialistica della storia, lo studioso pugliese propone una dettagliata analisi della composizione sociale del Mezzogiorno, che lo induce ad indicare nel proletariato rurale il soggetto e non più semplicemente l’oggetto delle riforme politiche non solo necessarie al riscatto del Mezzogiorno, ma anche alla democratizzazione dell’intero Paese.
Infatti, Salvemini, lungi dal declinare la questione meridionale nei termini di una mera contrapposizione regionalista tra una parte e l’altra del Paese, sulla base della sua analisi critica dei nessi che intercorrono tra la composizione sociale ed economica dell’Italia, le sue forme istituzionali e le linee politiche predominanti, propone di contrapporre al blocco conservatore formato dagli industriali settentrionali e dai latifondisti meridionali, un blocco sociale riformista, che faccia leva sull’alleanza tra gli operai del Nord e i contadini del Sud per ottenere la democratizzazione radicale del Paese attraverso la lotta per il suffragio universale e il federalismo su base comunale. Come egli stesso osserva:
Mentre i regionalisti unitari gridano, per i loro fini occulti, che fra il Nord e il Sud vi è lotta d’interessi, i federalisti debbono guardare che non è vero: non vi è lotta fra Nord e Sud: vi è lotta fra le masse del Sud e i reazionari del Sud; vi è lotta fra le masse del Nord e i reazionari del Nord; e i reazionari del Nord e del Sud si uniscono insieme per opprimere le masse del Nord e del Sud, così le masse delle due sezioni del nostro paese debbono unirsi per sconfiggere a fuochi incrociati la reazione, sia essa delinquente con la camorra e con la mafia, sia ipocritamente onesta con Colombo e Negri; viva essa sul lavoro non pagato dei cafoni pugliesi o su quello delle risaiole emiliane; prenda ai suoi rappresentanti Crispi o Saracco; si affermi sulle colonne del ‘Corriere della Sera’ o nei libri semiscientifici di Nitti. (G. Salvemini, “La questione meridionale e il federalismo”, in Id., op. cit., pp. 106-107)
A 125 anni dalla pubblicazione del saggio di Salvemini su La questione meridionale, il problema da lui posto dell’individuazione della “forza capace di attuare le riforme da tutti ritenute necessarie” per riscattare le condizioni del Mezzogiorno viene oggi ripreso e sollevato da alcune componenti della sinistra sociale, politica e culturale di orientamento progressista e radicale tramite la fondazione del Laboratorio di riscossa per il Sud, in un contesto politico-culturale in cui si continuano a scrivere “milioni di volumi geniali sul problema meridionale”, ma non si focalizza mai l’attenzione in modo adeguato sul chi deve fare cosa per risolverlo, ha lanciato la proposta di dare voce ai “vinti” del Sud tramite l’istituzione di “comunità ribelli”, che “lottino con il cappello in mano” per la loro dignità, i loro bisogni ed i loro diritti ancora oggi azzerati, disattesi e limitati.
*Il titolo originale dello scritto è “L’attualità della “rivoluzione copernicana” di Gaetano Salvemini: i vinti del sud da oggetto di riforme a soggetto consapevole del proprio riscatto”.