Spaventapasseri

Dall’altra parte della strada, minuscolo e lontano, sembra che lui stia camminando su uno strato di vetro sottile, e che di sotto si espanda un vuoto completamente nero. Il marciapiede si allunga sotto i suoi piedi verso la rotonda e si connette a questo lato della strada tramite strisce pedonali pericolanti. Sembrano ondeggiare a ogni macchina che passa: un ponte sbiadito.
Sul vetro dell’autobus – ormai alla fermata – aspettano una donna e tre bambini. Lei ha nascosto i capelli in una crocchia da cui saltano, acrobati, alcuni ciuffi. Ha una mano alzata per attirare l’attenzione dell’autista: non serve, si fermerebbe comunque. Locomotiva, lo annuncia sbuffando: Fermata, esordisce la voce spigolosa, che poi pronuncia un nome di un pittore locale.
I bambini ammirano l’autobus: fuori è affissa la pubblicità del film di un supereroe che sta per uscire in tutte le sale. Indicando con le manine da topo, gridano muti alla madre la loro meraviglia. Ma lei non risponde: si gira una volta, poi ancora una e un’altra ancora, sporgendosi più che può verso la fine del bus per guardare dove si trova l’uomo.
Sta attraversando la passerella disegnata a strisce sulla strada: sembrano essere state diluite nel catrame e lui è come in equilibrio sui puntini bianchi rimasti aggrappati all’asfalto lungo le linee. In mano ha una borsa della spesa da cui spuntano due bottiglie di detersivo e una confezione di carta igienica. Pende, spaventapasseri, verso sinistra: attorno al polpaccio, la tuta grigia si affloscia su una struttura rigida, e lui fa come per fermarsi ogni volta che si appoggia a quella gamba. Poi alza la testa, guarda Dio negli occhi, e lo bestemmia.
Le porte si aprono: tre entrate per quattro persone, ma entra solo la madre che scaccia i bambini brandendo la mano indietro, verso di loro, come un’arma.
Buongiorno, saluta l’autista.
Può aspettare un minuto? Mio marito ha un tutore alla gamba e fa fatica a camminare, ma sta già attraversando la strada, chiede.
L’autista lo guarda nello specchietto retrovisore e sbuffa di nuovo. Licenzia la donna sbracciandosi come per decollare, ma in realtà rimane seduto al posto del guidatore. Lei accenna un sorriso, e, con il braccio che puntava come un fucile, ora fa salire la piccola orda sull’autobus, prima di sparirci dietro.
L’uomo è ancora sulle strisce pedonali: si è chinato ad aggiustarsi il tutore. La faccia è ben cotta, con torrenti di sudore grasso che gli colano lungo il collo. Sta grigliando sulla graticola bianca mentre le macchine, carri da guerra di lamiera, si seguono l’un l’altra in una fila che si allunga oltre l’incrocio.
I bambini salgono, puntando verso il fondo. Ridono, felici che sia l’autobus del loro supereroe preferito. Sotto è dello stesso colore di tutti gli altri: un rosso che sembra vino invecchiato troppo. Anche dentro è come gli altri: grigio, con le maniglie, dove ci si impicca con le mani per evitare di cadere durante le sbandate e le frenate, completamente corrose. Nella salita, uno dei bambini cade, inciampando su una striscia di metallo non avvitata bene. Sbatte il muso e si rialza senza dire nulla. Gli altri due, sculture, si sono girati a guardarlo, anche loro in silenzio.
Tutto bene? chiedo. Ma il bimbo non risponde.
Il nasino rosso mi guarda, facendo penzolare la mascella come se fosse stupito di vedermi, o di sentirmi parlare, ma non risponde. L’autista ridacchia.
Non si è fatto niente, tante storie per un graffietto: è messo peggio il loro padre, dice, poi si sporge dal suo loculo. Gli autisti di autobus si chiudono sempre in loculi così: gabbie di vetro e metallo, al riparo dai suoni, dalle risse, dai borseggiatori, dai ritardatari e dagli anziani anemici che tornano dagli esami del sangue. Il mondo non li riguarda, né la vita. Devono solo guidare e guardare: fare la spola da un lato all’altro della città; arrivare al capolinea, poi girarsi e tornare indietro, più volte.
Fuori, le macchine gridano all’uomo che le tiene bloccate.

Manca molto? Sono già in ritardo, dice l’autista, Massimo un minuto e parto, faccia scendere i bambini.
La donna non risponde, grugnisce e scende. Fa segno ai bambin di rimanere sull’autobus. Fuori, corre dal marito, gli prende la borsa dalla mano e cerca di aiutarlo a rialzarsi. Ma l’uomo, colosso, non si sposta e solo dopo aver gridato qualcosa alla fila di macchine sforza ogni nervo e si rimette in piedi. Ricominciano a camminare, si muovono fiacchi.
I bambini li fissano attraverso i vetri che percorrono i fianchi dell’autobus: come fossero le controfigure dei loro genitori e, attraverso lo schermo trasparente, abbandonassero l’idea che si tratti della realtà, che quelli siano mamma e papà e non comparse di un film struggente. Appoggiano il naso ai finestrini, schiacciandolo verso l’alto come quello di un maiale.
L’autista, nel frattempo, sbuffa ancora, e con la mano picchietta sul volante. Voyeur, sonda la scena attraverso lo specchietto: finge discrezione, ma lo notano persino i bambini, che si voltano a guardarlo per un attimo, con la bocca aperta.
I genitori non sono nemmeno a metà della strada quando l’autista decide che il ritardo è troppo.
Bambini scendete, dice. Prendete il prossimo.
Venitevi a prendere i bambini, grida dal finestrino abbassato, Veniteveli a prendere, ora parto.
Ma i bambini rimangono, ghignano qualche verso, e tornano a guardare la scena oltre il vetro.
L’autista guarda l’orologio e sbatte più volte sul cristallo per ucciderlo e fermare il ritardo. Bestemmiando, guarda la strada che si avvolge a fili attorno le crune dei palazzi, come aghi, congiungendosi ai vialetti d’ingresso e alle strade private. Poi preme un bottone su una pulsantiera, tavolozza, piena di altri bottoni disposti in ordinate macchie di colore. Sbuffa anche il bus e si chiudono contemporaneamente tutte le porte. La donna da fuori offende muta l’autista e accenna un salto per aggrapparsi al mezzo, come se potesse fermarlo: come se fosse un supereroe. L’autista risponde, le grida che doveva darsi una mossa, che l’ha avvisata, e, più dolce, le dice telegrafico di andare a prendere i bambini alla fermata successiva, poco più avanti, Saranno cinquecento metri, dice.
I bambini seguono con gli occhi, telecamere, i genitori: le strisce pedonali si muovono troppo per uno zoppo. Ne studiano la posa: la madre punta una mano all’aria, il padre si è inginocchiato e le macchine sembrano stirarsi in linee colorate sovrapposte l’una all’altra, mentre ricominciano a filare sulla strada.
Passato l’incrocio, l’autista alza il mento e urla ai bambini di aspettare i genitori alla prossima fermata.
Questa volta scendete, dice.
Il bimbo caduto si gira a mi guarda. Una sola lacrima gli stria le guance, fermandosi nella conca formata dalla gota contratta.
Non posso farci niente, ma posso aspettare con voi alla fermata – non lo dico: nessuno mi sente, nemmeno i bambini. Non posso aspettare alla fermata: la fretta mi frusta, mi chiama a raccolta in altri posti, senza compassione per nessuno.
Cresceranno, ancora una volta parlo a me stesso.
Il bambino col naso arrossato molla il mio sguardo e torna a osservare la strada srotolarsi, pellicola, attraverso il vetro. Poco più avanti si vede un palo giallo su cui è affisso un cartello. Sopra, il disegno di un autobus: è la prossima fermata.
L’autista, sentinella, controllando nello specchietto, non trova inseguitori, ma si ferma a fissarmi.
Cresceranno, mi dice colpevole, cercando uno sguardo corrisposto nel riflesso. Poi sospira verso la strada, e inizia l’approdo alla nuova fermata.
Cresceranno.