Leopardi il nichilista
Giacomo Leopardi è un poeta greco arcaico caduto nella modernità. È epigono spirituale di Senofane, Teognide, Eschilo da cui eredita il canto tragico iniettato da una visione poderosa e filosofica dell’esistenza umana. A differenza della stirpe da cui proviene, tuttavia il recanatese muta il sentimento tragico originario in lucido nichilismo, di cui anticipa gli approdi posteriori. Lo spirito tragico dei Greci conosceva il dolore sotteso all’esistenza, che si configurava come una breve parentesi vitale soggetta all’arbitrio di forze oscure e soverchianti: l’effimera vita dell’uomo danzava su un nucleo ontologico tenebroso. La sapienza tragica era riassunta dal monito terribile di Sileno a re Mida: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto“. Tuttavia nella visione greca non vi è l’ipotesi che l’esistenza non abbia senso, essa è sofferenza non lamentazione del nulla, come invece il nichilismo moderno scoprirà. I Greci accolgono eroicamente il divenire distruttore intendendolo come fondativo ciclo cosmico di distruzione e nascita a cui nessuna creatura può sottrarsi. Vivere in sembianze umane è trapassare: questa la legge universale. Il Cosmo rigenera perpetuamente se stesso attraverso l’annientamento di ciò che è, essere e divenire coincidono. L’uomo è dentro a una sfera che gira su stessa e che include tutto.
Leopardi anticipa la modernità, la inizia, nello svelamento che questo ciclo non abbia alcun fine ultimo, che non vi sia uno scopo finale che dia un significato definitivo alla vita dell’uomo; la sfera ruota per se stessa e l’uomo è un essere tra gli altri, senza alcun privilegio specifico. Il nichilismo è l’approdo ultimo della razionalità occidentale che si schianta contro l’ultima (o la prima) verità dell’insensatezza assoluta dell’esistenza, che Nietzsche sintetizzerà perfettamente in un aforisma folgorante: “Nichilismo. Manca il fine; manca la risposta al “perché?1”. In Leopardi, ben prima che nel filosofo tedesco, le illusioni metafisiche di un Dio creatore o di un ordine cosmico razionale (il Logos) che possano giustificare e redimere la vita dell’uomo vengono disintegrate attraverso il vaglio di quella stessa ragione che le aveva create e supportate durante due millenni di filosofia e di religione, congiunte poi nel cosiddetto platonismo cristiano, per il quale doveva esserci una realtà trascendente che legittimasse il mondo apparente delle forme sensibili, divenienti e mortali. Per Leopardi la Natura non ha invece altro scopo che quello di perpetuarsi, in modo ottuso e cieco, non tende ad altro se non a se stessa, non possiede uno scopo se non quello di continuare. Forma e sostanza coincidono: pura materia vivente, manca il fine (umano), non c’è un perché nascosto.
Ora per comprendere nitidamente la portata innovatrice, l’incipit della modernità, del nichilismo leopardiano si rivela innanzitutto necessario scrostare il pensiero del poeta-filosofo dalle miopi e asfittiche definizioni di pessimismo che ancora soffocano la sua prospettiva abissale. La corrente manualistica (scolastica ad esempio) si ostina ottusamente a risolvere il pensiero di Leopardi nel pessimismo, addirittura indicando ben tre fasi misurabili: individuale, storico, cosmico. Questa risibile tripartizione collocherebbe uno dei padri nobili del pensiero contemporaneo nella schiera degli afflitti, degli spregiatori della vita, dei sofferenti che ripudiano l’esistenza in quanto dolorosa. Basterà la semantica per spazzare via queste tenaci amenità; difatti il significato di pessimismo è una “disposizione di spirito, naturale o acquisita per dolorosa esperienza di vita, a considerare la realtà nei suoi aspetti peggiori2”.
La speculazione leopardiana non è “una disposizione di spirito” bensì un tentativo lucido e razionale di comprensione della realtà, la quale non è considerata “nei suoi aspetti peggiori” ma nella sua essenza (almeno per come il pensiero la interpreta). Dalla poetica leopardiana è alieno il lamento lagrimoso sull’irrecuperabilità del mondo, costitutivamente negativo e perduto, il giudizio sulla realtà non si fonda su un sentimento di sfiducia, meno che mai per motivazioni soggettive (il poeta dalla vita infelice, lo storpio solitario, che riversa la sua disperazione sul mondo). E se vi è una condanna “storica” non è dettata da motivi contingenti (il contino, isolato conservatore) bensì da una disamina rigorosa dei limiti e dei deliri della modernità. Infine, “pessimismo cosmico” non vuol dir nulla in sé; per Leopardi il cosmo non è pessimo ma brutalmente indifferente alle sorti umane, non si connota di valenze etiche ma fisiche. La messa a fuoco letteraria del nichilismo avviene nelle Operette morali dopo che, come un fiume carsico, era scorsa torrenziale nello Zibaldone: “Le più piccole parti di materia possono essere divisibili in parti sempre più piccole, ma le singole parti saranno sempre materia. Al di là non troverete mica lo spirito, ma il nulla”, e ancora “il nulla è negli oggetti e non nella ragione”, fino alla sentenza tombale “il principio di tutte le cose e di Dio stesso è il nulla3”.
Nelle Operette morali, con cui il poeta era transitato dal “bello al vero”, la Natura spogliata dallo stupore romantico di polo terribile e dialettico dell’umano, venata già di accenti nullificanti (“il naufragar m’è dolce in questo mare”), si manifesta nella sua strutturale nudità (aridità) quale estraneità radicale, svela (aleteia, ciò che era nascosto e si mostra) la sua essenza ultima: l’essere assolutamente in sé e per sé. L’islandese, nell’omonimo dialogo, giunto di fronte alla Natura, “una forma smisurata di donna”, le pone il quesito atavico dell’umanità circa il senso della vita umana, del dolore e della morte; la risposta della Natura è agghiacciante: “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? …Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo (…) E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei4”. Qui il nichilismo si compie: l’Essere non ha intenti persecutori verso l’uomo, non vi è una volontà cosmica malvagia, non c’è un motivo al dolore, un fine alla vita dell’uomo, solo la sua insignificanza rispetto alla totalità, la sua ontologica inconsistenza.
La possente struttura filosofica, disseminata nello Zibaldone ed espressa con accecante eleganza nella prosa delle Operette, proietta il tema del nichilismo, come una tessitura occulta, anche nei Canti della maturità. Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, all’iniziale rivolta metafisica (“Che fai tu luna in ciel? dimmi che fai, silenziosa luna?”), in cui un rabbioso pugno sembra levarsi contro il cielo ottuso, dove l’eterno circolo del divenire scorre senza fine e senza scopo (“Ancora non sei paga/ di riandare i sempiterni calli”), si contrappone il tempo eterno del dio muto a quello caduco dell’uomo (“…dimmi ove tende/ questo vagar mio breve,/ il tuo corso immortale”), teso all’inevitabile annientamento (“abisso orrido, immenso,/ ov’ei precipitando, il tutto obblia.”), dentro all’assoluta indifferenza cosmica (“Ma tu mortal non sei,/ e forse del mio dir poco ti cale”). Il dolore del nulla congiunge tutti i viventi, il comune destino di distruzione unisce in un afflato solidale il pastore e la sua pecora (e qui c’è l’eco potente del De rerum natura di Lucrezio e delle Georgiche di Virgilio), la quale tuttavia non ha la lacerante consapevolezza dell’uomo, potendo dimenticare. La pecora non ha una ragione malata di memoria e di nichilismo, potrà andare verso il proprio destino mortale senza saperlo in anticipo. Il nichilismo leopardiano qui include le fondamenta stesse della razionalità: pensare è ineludibilmente pensare al nulla. La ragione occidentale scopre il proprio peccato primario, la tara originaria: l’intrinseca natura nichilistica.
L’ottimismo illuministico non aveva previsto la potenzialità negativa del pensiero, non possono difatti darsi limiti all’azione della razionalità, che non è solo affermativa ma strutturalmente dubitativa. La ragione non costruisce soltanto ma più radicalmente demolisce, come prima di chiunque Leopardi intuisce (“la ragione madre e cagione del nulla5”). L’indagine leopardiana sul nichilismo dunque si orienta su un doppio movimento: da un lato l’azione nullificante della razionalità umana che svuota di senso proprio perché intrappolata in se stessa e nei propri paradigmi che le consentono conclusioni necessariamente parziali, obbligate e negative. La ratio occidentale, che aveva posto la verità quale sua meta ultima, non può che approdare al niente, sia perché una verità “umana” non è data, sia perché la ragione non può che affermare “solo” se stessa, cioè il dubbio e la negazione (“l’assurdo si misura dalla dissonanza col nostro modo di ragionare6”).
Il secondo movimento della speculazione leopardiana aggredisce la tradizione platonico-cristiana, che prevedeva un mondo “vero” a cui quello imperfetto e mutevole dell’apparenza e della materia tendeva, meta-fisico appunto. Ora l’opera della scienza e il relativo disincanto della razionalità moderna hanno mostrato, anche attraverso la tecnica, che non soltanto vi è un “unico” mondo, quello della materia, ma che questo non tende a nessun fine o scopo metafisico (“l’infinita vanità del tutto”). Tuttavia il nichilismo leopardiano prevede un’assenza di senso non assoluta bensì per l’uomo, è il senso teologico filosofico della tradizione platonico-cristiana che manca non quello cosmologico e ontologico. La natura non è priva di scopo, semplicemente ha il “suo” scopo: il perpetuo tenersi del tutto attraverso il divenire. La natura di Leopardi è lucreziana, materia vivente di incessante composizione e scomposizione di atomi, in cui non può darsi vita senza morte.
In questo orizzonte, la risposta non sta nell’eroico (ma utopico) oltreominismo nicciano dell’eterno Si alle forme cangianti e divenienti, al dolore e alla morte, bensì nell’invito, forse anche più potente e pragmatico, alla solidarietà tra gli uomini (“la social catena”), implorati come ciechi ignavi (“e gli uomini vollero le tenebre”) ad assumere la necessità di stringersi in una comunità empatica per attutire la distruttività incombente che li assedia. Dare un senso umano alla vita a partire dalla consapevolezza dell’assenza di un fine ultimo è la risposta leopardiana alla domanda del coevo Schopenhauer7 se “l’esistenza abbia un senso”.
Ne La Ginestra, atto conclusivo del nichilismo leopardiano, oltre a una salutare lezione circa l’ottusa protervia del sapere tecnico-scientifico (“secol superbo e sciocco”) e sui limiti ermeneutici del razionalismo illuministico, che compie la radice nichilistica del pensiero occidentale, vi è una testimonianza di etica umanistica che spazza il campo dall’ottimismo positivistico, miope e meschino rispetto ai destini ultimi. Andando oltre Nietzsche che lo seguirà mezzo secolo dopo, ne La Ginestra vi è l’esortazione, non alla semplice accettazione del divenire distruttore e privo di scopo (l’eterno Si alla vita, l’amor fati di Zarathustra), all’opposizione umana verso l’insensata furia annientatrice attraverso la poesia, l’inno umano all’esistenza. Il fiorellino ostinato, la ginestra, risorgerà da sotto alla lava e ricomincerà a profumare8, così come il poeta continuerà il canto anche dopo la visione del nulla. Se uno scopo ultimo non esiste, l’uomo è chiamato a donare alla vita un fine umano e può farlo solo attraverso il canto, anche sull’abisso.
1 F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1887-1888, 9, Adelphi, MI, 1971.
2 Dizionario Treccani
3 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, ed. Mondadori, MI, 2004, pagg 1635, 2944, 1341.
4 G. Leopardi, Dialogo della natura e di un islandese, in Operette morali, BUR, MI, 2008.
5 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Op. cit. 2942.
6 Ivi, 1470.
7 Leopardi non studia l’opera del filosofo tedesco, mentre Schopenhauer legge Leopardi in italiano e lo definisce “fratello spirituale italiano”, ritrovandone profondi motivi di consonanza.
8 “Or tutto intorno/ una ruina involve, / ove tu siedi, o fior gentile, e quasi/i danni altrui commiserando, al cielo/ di dolcissimo odor mandi un profumo, / che il deserto consola.” G. Leopardi, La Ginestra, vv 32-37.