Mann e Kerenyi
Ci si può inserire nella vasta tematica della necessità di un nuovo umanesimo anche mettendo a fuoco un piccolo scorcio: con un exemplum, come quelli di Plutarco, o quelli medioevali, o secondo la stessa ottica degli umanisti che vedevano negli antichi un modello da imitare, come Leonardo Bruni. L’exemplum che scegliamo riguarda, per tornare a Plutarco, due vite parallele, ma parallele che s‘incrociano, si intersecano, e lo fanno proprio sulla necessità di un nuovo umanesimo del quale si sente la necessità per ricostruire la civiltà dopo le macerie della seconda guerra mondiale. Mi riferisco allo scrittore tedesco Thomas Mann e al filologo classico e storico delle religioni Károly Kerényi. E a un loro doppio carteggio. Il primo, che va dal 1934 al 1945, accompagna la stesura della tetralogia manniana dedicata a Giuseppe e i suoi fratelli, nella quale il più giovane studioso ungherese “aiuta” il Maestro (come lo chiamerà nel corso del carteggio) nelle questioni di carattere specificamente religioso e verrà pubblicato in occasione del settantesimo compleanno di Mann con il titolo Romanzo e Mitologia. La seconda parte del carteggio va dal 1945 al 1955, anno della morte di Mann, accompagna la stesura del capolavoro senile di Mann, Il doctor Faustus e gli altri ultimi libri, e uscirà con il titolo di Umanesimo, felicità difficile. In uno spirito “umanistico” i due autori si scambiano e discutono i rispettivi scritti spedendoseli da un capo all’altro del pianeta: se nel primo carteggio Mann scrive dalla Svizzera e dagli Stati Uniti e Kerenyi dalla sua Budapest, nel secondo carteggio, è Kerenyi a rispondere dalla Svizzera a Mann che risponde dalla California anche se poi, come letterati umanisti, i due continuano a viaggiare. Se è il secondo carteggio ad essere intitolato specificamente all’umanesimo (e l’espressione “nuovo umanesimo” ricorre in occasione di una conferenza radiofonica dedicata a Nietzsche di cui si dà conto in questo secondo scambio epistolare), questa prospettiva attraversa anche le lettere della prima fase che coincide con gli anni della sciagurata avventura nazista. Al di là delle riflessioni specifiche sulla natura di questo “nuovo umanesimo” è importante l’intenzione e lo spirito con cui i due autori hanno scambiato le proprie lettere e le proprie esperienze. Giacomo Debenedetti, in una nota dell’edizione italiana che riunisce entrambi i carteggi (T. Mann, C. Kerenyi, Dialogo, il Saggiatore, Milano 1973), scrive a proposito della seconda parte: “La collaborazione, questa volta, più che mettersi al servizio delle opere che l’artista ha in cantiere, dovrebbe fruttare alla causa dell’umanesimo. È il tema su cui Kerényi vuol far convergere gli accenti delle lettere qui riunite, come si rileva fin dal titolo da lui dato alla raccolta. E veramente in questa si ritrova più spiccato il carattere che già si era voluto riconoscere nella precedente: la ‘grazia malinconica’ di ‘un carteggio tra umanisti che ricorda quello tra Erasmo e i suoi amici’ [da una recensione al primo carteggio che Kerényi riporta a Mann]. Ogni lettore valuterà a suo modo la definizione di un moderno umanesimo che emerge dal colloquio, specialmente nelle battute di Kerényi, il quale difende un ideale forse poiù conservatore di quello che si intravvede negli interventi di Mann. Comunque, il breve libro varrà tra l’altro quale un’autorevolissima testimonianza storica di quell’appello a un nuovo umanesimo che, dalle parti più diverse, si presentò come una delle vie di ric ostruzione nel secondo dopoguerra” (pp. 102-103). Tra le prime pagine della seconda parte troviamo questa considerazione di Mann a proposito di coloro che nel 1933 sono rimasti in silenzio al loro posto e che ora fingono di aver resistito: “Anche noi non vogliamo dimenticare nulla, ma qualche cosa abbiamo imparato, non è vero?” (p. 139, 23 settembre 1945). E poco più avanti Kerényi cerca di chiarire che cosa intende per umanesimo, con un’affermazione che ci dà il senso del dover andare avanti: “… parlo di un umanesimo nel senso di quella illuminazione, di quella consapevolezza progressiva e veramente ‘progressista’” (pp. 144-145, 19 dicembre 1945). Per poi parlare di un’unione di Roma e di Svizzera, la capitale del mondo classico dove afferma di voler vivere (p. 146, idem) e il piccolo stato mitteleuropeo che durante il conflitto è stato una zona franca per gli esuli, per Mann e Kerényi in primis, e dove entrambi hanno concluso la propria vita. Thomas Mann risponde a questa lettera affermando: “L’approfondimento dell’umanesimo mediante l’elemento religioso, che ancora credo possibile senza dogmatismi non degni di fede, è forse l’unico modo di conferirgli la forza imperante di cui ha bisogno per raccogliere la sbandata umanità intorno a un’autorità nuova. Senza questa raccolta e un’ideale formazione di rispetto e di vita comune, il risultato dell’intricato esperimento ‘uomo’ sarebbe, come ognuno sa, molto minaccioso, anzi senza speranza” (p. 147, 12 febbraio 1946). Al che Kerényi immediatamente aggiunge una “collaborazione dello spirito europeo” (p. 151, 26 febbraio 1946). E “un’esperienza… così umanistica” (ivi) riecheggia tra lettori di tutta Europa da Roma, al Portogallo, a Ginevra, fino a Hesse, l’autore del Giuoco delle perle di vetro così amato da Mann, Hesse che, come riporta sempre Kerényi si è dimostrato “sommamente interessato”. E subito dopo Kerényi saluta in Mann un “umanismo supernazionalistico”, un “àtopo dello spirito” (p. 153, ivi), perché l’umanesimo appare dunque così, privo di confini nazionali e nazionalistici, come una religio accademici. Dunque una “comunità di umanisti e zingari” (p. 154), come esiste “una comunità di ebrei e di tedeschi, di svizzeri e di messicani” (ivi). Allora, ecco la questione di un “umanesimo in sé”, che è un attaccamento agli uomini senza appartenere a un potere, a una nazione potente (p. 157, 1 agosto 1946). Quindi un nuovo “foro spirituale” (p. 160, ivi). O anche il World Governement del quale Mann vede le prove negli Stati Uniti nel quale vive (p. 163, 15 settembre 1946). Mann non sa se e quando ciò si realizzerà: “Eppure, un’opera, sia pure frutto della disperazione, non può non avere come sostanza ultima altro che l’ottimismo, la fede nella vita… come d’altro canto anche la disperazione è una cosa singolare: reca già in stessa la trascendenza della speranza” (p. 167, 1 gennaio 1947). Con il passare del tempo aumentano i tempi morti della corrispondenza e diventa più fievole il richiamo al nuovo umanesimo, ma i due continuano a scambiarsi i loro scritti, come quello su Nietzsche di Mann e su Platone di Kerényi. Queste due vite che, espandendosi si sono incontrate, si salutano poco prima della scomparsa di Mann, avvenuta il 12 agosto 1955, a Zurigo. Al 23 giugno risale l’ultima lettera dello scrittore tedesco, da Kilchberg, sul lago di Zurigo, che affettuosamente chiude così il carteggio: “Il mondo, Dio lo benedica, ha fatto un gran chiasso intorno a me. Le do un consiglio, si guardi bene dal diventare troppo famoso!” (p. 234).