Marcuse nell’Antropocene: su guerra ed ecologia

Sfatato da qualche anno il “mito” di un capitalismo green, capace di conciliare la crescita del PIL con la sostenibilità ambientale, il movimento ecologico – si veda ad esempio il recente The Climate Book a cura di Greta Thunberg – sembra orientarsi sui temi della “giustizia climatica”, legando questione ambientale e questione sociale e scontrandosi con quei governi che fino a pochi anni fa non disdegnavano di cooptarne i leader alle famigerate Conferences of Parties sul clima (COP). I governi, invece, adesso paiono concentrare i loro sforzi di cooptazione interna per un impegno bellico, usato anche per giustificare il rinvio dei necessari investimenti nella “transizione ecologica”. Eppure, in questo caso, la pur diffusa opinione contraria alla guerra non riesce a prendere forma in un vasto movimento politico, come avviene nel caso dell’ecologia.
Il legame tra guerra all’altro uomo e guerra alla natura non era un tema così lontano dal movimento ambientalista degli anni Settanta, in particolare negli Stati Uniti e in Germania, dove il movimento anti-atomico più facilmente aveva uno sbocco anti-militarista. Questo vincolo è una delle ragioni che spinse il filosofo tedesco, emigrato dal 1934 negli USA, Herbert Marcuse ad interessarsi del movimento ecologico fin dai suoi primordi.
I suoi interventi sul tema, Ecologia e Rivoluzione (1972) e Ecologia e critica della società moderna (1979), legano i due lati della guerra ad una teoria più generale sulla “distruttività produttiva” del capitalismo avanzato. Secondo Marcuse, il capitalismo avanzato è messo continuamente in crisi da una contraddizione fondamentale: da un lato, tende ad aumentare la produttività del lavoro per aumentare i profitti, ma, dall’altro, intacca i profitti nel lungo periodo, poiché diminuisce la quantità di lavoro vivo, fonte unica del plusvalore, con la meccanizzazione. Per convertire il tempo liberato dalla meccanizzazione in nuovo tempo di lavoro salariato da sfruttare, spiega Marcuse, il sistema genera una penuria artificiale di beni e servizi: manipolando coscienza e desideri degli individui attraverso il management scientifico; sprecando risorse e pianificando l’obsolescenza delle merci; espandendo l’industria grazie al sostegno del Warfare di Stato.
La distruttività diventa così produttiva e permette di stabilizzare la contraddizione all’interno del “centro” (del sistema), integrando ampi settori della popolazione con la garanzia di una “piena” occupazione, la prospettiva di un tenore di vita elevato e un immaginario condiviso tra capitale e lavoro, capitalismo e comunismo, legato alla “magia” di una crescita illimitata assunta come “neutra” e quindi valida “universalmente” per il progresso dell’Uomo, al di qua di ogni differenza “politica”. Tuttavia, ciò avviene solo a patto di distruggere un fuori su cui scaricare la contraddizione accumulata dal centro.
Queste “alterità”, nel lavoro su Ecologia e Rivoluzione del 1972, vengono individuate nel popolo vietnamita e nella natura. Quella della «controrivoluzione globale», scrive Marcuse, è una fase in cui «il capitalismo monopolistico» muove «guerra contro la natura – tanto esterna quanto umana».
Innanzitutto, egli individua una «contraddizione interna» tra quel modello di sviluppo e la natura esterna. L’abbondanza di prodotti e di servizi, con cui alimentare occupazione e consumi, richiede una «domanda crescente di sfruttamento» che «riduce ed esaurisce progressivamente le risorse: più aumenta la produttività capitalistica, più diventa distruttiva». «La legge dell’accumulazione allargata di capitale», che fonda sulla «necessità di perpetuare il lavoro alienato e lo sfruttamento», quindi, «entra in conflitto con la natura stessa» e genera una «contraddizione assoluta tra ricchezza sociale e il suo uso distruttivo». Si badi, questo non è un accidente: è piuttosto il fatto che «la logica ecologica è puramente e semplicemente la negazione della logica capitalistica».
Nella misura in cui buona parte di queste risorse è tratta da paesi di “periferia”, anche quella che apparentemente non sembra una guerra imperialistica – non erano immediatamente coinvolti investimenti diretti americani nel Vietnam – lo diventa per prevenire la diffusione di una ribellione che potrebbe minacciare il motore nascosto di quell’immenso apparato distruttivo, cioè l’estorsione di pluslavoro e di risorse all’estero. Ancor di più quando lo sviluppo di questi paesi dipende solo da una riforma agraria che intacca gli interessi delle classi locale dei latifondisti, che diventano gli unici referenti possibili per gli USA. La «levigata, confortevole, ragionevole, democratica non-libertà» della «civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico», di cui parlava ne L’uomo a una dimensione, richiede quindi colpi di Stato di stampo autoritario-fascista nel mondo.
L’unità di progresso distruttivo, distruzione ambientale e distruzione umana si manifesta nell’uso del napalm denunciato in Ecology and Revolution. L’«ecocidio» che «intacca le fonti e le risorse della stessa vita» diventa una strategia di «guerra genocida», visto che «bruciare e avvelenare la terra, deforestare, far saltare in aria le dighe» permette di prevenire che non solo i «viventi di oggi, ma anche chi non è ancora nato» si possano ribellare alla gerarchia globale usando in maniera autonoma le proprie risorse naturali. Il dominio sulla natura diventa così lo strumento per rinsaldare il dominio sull’uomo minacciato dalla ribellione. Come «la Terra non può essere salvata all’interno del capitalismo», così, conclude Marcuse, «il Terzo Mondo non può svilupparsi secondo il modello del capitalismo».
Questo è però solo un lato della questione, quello attinente, se vogliamo, ai rapporti sociali esterni tra gli uomini e tra gli uomini e la natura non-umana. La teoria critica di Marcuse, però, aveva già ampliato il suo raggio a quel mondo della “natura interna” freudianamente descritto in termini di pulsioni fondamentali – Eros e Thanatos, pulsione di vita e pulsione di distruzione –, di principio di piacere e principio di realtà, di rapporti tra l’Io e l’Es e il Super-io.
I due piani non sono affatto scollegati: per Marcuse il «mondo della natura» è un «mondo storico, sociale», sia nel senso che l’uomo, mediante il lavoro sociale, trasforma la natura esterna, sia nel senso che così facendo, trasforma la sua natura interna, la soggettività degli individui, costituendo natura interna ed esterna una totalità dialettica. Ed è proprio lo sviluppo del capitalismo più avanzato a dimostrarlo.
Rispetto alle fasi iniziali della società di mercato, in cui sopravviveva una natura «al di là del lavoro», nello stadio monopolistico il capitalismo «riduce sempre più gli ultimi spazi naturali rimasti al di fuori del lavoro e dello svago organizzato e manipolato». Non si tratta solo di un processo economico, ammonisce Marcuse, ma anche di un «processo politico». La natura al di là dell’alienazione è anche «la fonte e il locus delle pulsioni di vita che lottano contro le pulsioni dell’aggressività e della distruzione», cioè contro quelle pulsioni che la società repressiva ha bisogno di liberare per adattare gli individui fin alla loro «radice» al suo orizzonte competitivo, prestazionale, sprecone, bellicoso. Una natura inquinata, sfruttata, assoggettata al consumo, fa sì che nella natura esterna gli individui trovino soltanto «una ripetizione della sua stessa società», impedendo preventivamente lo sviluppo di una struttura caratteriale, pulsionale, antagonistica a quella dominante.
La guerra contro la natura esterna è perciò uno degli strumenti di dominio di quel progetto capitalistico che, nutrendosi dello sfruttamento del lavoro altrui, fin dalla prima età moderna ha avuto bisogno di «assoggettare il principio di piacere al principio di realtà e trasformare l’uomo in uno strumento di un lavoro sempre più alienato», innanzitutto nel corpo. Essa abitua a trattare la propria corporeità e quella esterna come mero strumento di lavoro per altri e altro piuttosto che come strumento di piacere. La distruzione della natura, così, rientra nella «tendenza totalitaria del capitalismo monopolistico» che deve chiudere «una dimensione pericolosa di fuga e di contestazione», una fonte di ispirazione di bisogni e valori alternativi a quelli socialmente dominanti. Un locus in cui la liberazione sociale dal lavoro alienato possa diventare bisogno, obiettivo “naturale” delle pulsioni di vita:

«L’inquinamento e l’avvelenamento sono processi tanto mentali quanto fisici, tanto soggettivi quanto oggettivi […] Quando le persone non sono più capacità di distinguere tra bellezza e bruttezza, tra serenità e cacofonia, non sono più capaci di comprendere la qualità essenziale della libertà, della felicità. Nella misura in cui è diventata il territorio del capitale piuttosto che dell’uomo, la natura serve a rafforzare la servitù umana. Queste condizioni sono radicate nelle istituzioni fondamentali della società costituita, per la quale la natura è innanzitutto un oggetto di sfruttamento per il profitto. Questo è l’insormontabile limite interno di qualsivoglia ecologia capitalistica».

Tuttavia, il sorgere del movimento ecologico, al pari della resistenza corporea dei vietnamiti alla macchina super-tecnologica della distruzione americana, viene a provare che la dimensione naturale dell’Eros resta ciò che si era prospettato fin dalle pagine di Eros e civiltà, e che ne L’uomo a una dimensione pareva essere stato definitivamente assoggettato: la base fondamentale del “Grande Rifiuto” contro le forme di vita e gli obiettivi fondamentali oggettivati nelle istituzioni sociali del lavoro alienato, del profitto, dello Stato amministrato.
Per un verso, la guerra in Indocina è la «risposta capitalistica al tentativo di una liberazione ecologica rivoluzionaria: le bombe devono impedire [prevent] che la popolazione del Nord Vietnam riabiliti socialmente ed economicamente la terra». Esso appare come il Nemico che va annichilito per difendere la civiltà tout court perché la sua resistenza è rottura dell’immaginario dell’unità tra crescita illimitata e progresso umano. Come spiega ne L’individuo nella Grande Società, il Vietnam è prova della possibilità di «vincere la povertà mediante una riconversione, più che un aumento della produzione, mediante l’eliminazione della produttività dai campi dello spreco socialmente necessario, dell’obsolescenza pianificata, degli armamenti, della pubblicità, della manipolazione».
Per l’altro verso, scrive in Ecology and Revolution, «la rivolta dei giovani (studenti, lavoratori, donne)» sorge, ancor prima che da una teoria consapevole, da «un sentimento, un riconoscimento, che non è più necessario esistere come uno strumento di lavoro e svago alienati […] che il benessere non dipende da una crescita perenne nella produzione». È una rivolta che perciò «attacca tutti i valori che governano il sistema capitalistico», che in taluni casi si orienta «verso l’obiettivo di un ambiente tecnico e naturale radicalmente differente» e che sperimenta già ora pratiche di vita in comune e in comunione con la natura. Il movimento ecologico è, per Ecologia e critica della società moderna, «un movimento di liberazione politico» e insieme «psicologico»: politico, in quanto sottrae la natura allo sfruttamento capitalistico, e perciò «si oppone al potere compatto del grande capitale»; psicologico, poiché mobilita l’Eros alla rivolta, «perché la pacificazione della natura esterna, la protezione dell’ambiente vitale, pacificherebbe anche la natura interna degli uomini e delle donne. Se avesse successo, l’ambientalismo subordinerà, all’interno degli stessi individui, l’energia distruttiva all’energia erotica».
Ancora altro ci sarebbe da dire sulla posizione ecologista marcusiana. Ma già queste brevi indagini sul legame tra capitalismo e morte, e liberazione politica, sociale ed ecologica e vita, ci permettono di guardare in maniera teoricamente meno impreparata a un mondo in cui un nuovo ordine “multipolare” sembra rompere l’unipolarismo americano, complicando il rifornimento di quelle materie prime necessarie sia alla “transizione” ecologica che a quella digitale. Inoltre, potrà sembrarci anche meno lontano il suo monito ad evitare la cooptazione «green» facendo «fluire» l’ecologismo «in una prassi militante che attacchi il sistema alle sue radici». Marcuse ci lascia il compito di cercare possibili ponti per legare, in teoria e in pratica, fenomeni solo apparentemente accidentali e solo fittiziamente estranei l’un l’altro, ma profondamente interconnessi alle dinamiche proprie di un sistema sociale che ormai minaccia di mettere a repentaglio la vita della maggioranza della specie umana, oltre che di tante altre specie viventi non-umane.