Zeno, il fumo e le scarpe di Augusta

“Un vuoto grande e niente per resistere all’enorme pressione che subito si produce attorno a quel vuoto”. Così Zeno immagina la sua vita senza le sigarette. Perciò non riuscirà mai a smettere di fumare, benché il proposito di farlo lo accompagni per tutta la vita, costellando le sue giornate, dai venti ai sessant’anni, di “ultime sigarette” tanto più gustose e appaganti in quanto consumate sul margine stesso di quel vuoto. Smettere è il problema cruciale perché, come l’etimologia elementare del verbo denuncia fin troppo apertamente, si tratta di porre una S privativa dinanzi a ciò che si era “messo” nella propria vita e, quindi, di negarne il contenuto, di renderla vuota.
Una volta compiuta eventualmente questa operazione di svuotamento, è chiaro che si presenterà un nuovo problema: che cosa mettere al posto di ciò che si è smesso? Ad un amico molto grasso che si sta sottoponendo a una rigorosissima dieta dimagrante, Zeno rivolge infatti questa domanda rivelatrice: “Ma, a cura finita, che cosa ne farà Lei di tutta questa pelle?”
Proprio qui sta il nodo. Liberarsi della dipendenza è certamente possibile, ma all’ironico acume di Zeno non sfugge il problema dell’involucro: che fare del recipiente vuoto che si verrà a creare in seguito a questa sottrazione? Di che cosa si riempirà, per resistere all’enorme pressione cui si troverà istantaneamente sottoposto?
Quasi cercando una risposta a questo interrogativo, Zeno si decide infine a tentare l’ardua strada della disintossicazione coatta. Con le sole sue forze smettere gli è impossibile, benché il proposito sia continuamente rinnovato. La sua vita è tutta un succedersi di occasioni straordinarie, da celebrare con un’ultima sigaretta: la morte del padre, la nascita del figlio, addirittura la morte di Pio IX, o il semplice ricorrere di certe date significative per le loro concordanze numeriche, come il nono giorno del nono mese del 1899 o il primo giorno del primo mese del 1901. Ma l’ultima sigaretta non rimane mai l’ultima per più di qualche ora. Il vuoto non ha neppure il tempo di annunciarsi.
Nella clinica nella quale Zeno si risolve infine a farsi disintossicare a viva forza, le cose andranno subito diversamente. Il progetto è di una semplicità elementare: Zeno verrà rinchiuso in un piccolo appartamento, sotto la sorveglianza di un’infermiera-guardiana, senza sigarette e senza alcuna possibilità di procurarsene.
Tranquillo e apparentemente determinato, Zeno, accompagnato dalla moglie Augusta, si presenta all’ora convenuta al direttore della clinica. “Egli ci accolse in persona alla porta. Allora il dottor Muli era un bel giovane. Si era in pieno d’estate ed egli, piccolo, nervoso, la faccina brunita dal sole nella quale brillavano ancor meglio i suoi vivaci occhi neri, era l’immagine dell’eleganza, nel suo vestito bianco dal colletto fino alle scarpe.”
Zeno viene accompagnato alla sua nuova residenza-prigione e presentato all’infermiera-guardiana. A questo punto Augusta e il medico si congedano e, immediatamente, ecco che il recipiente vuoto si riempie di un nuovo, imprevisto contenuto: “fu proprio in quell’istante che nel mio animo germinò un sentimento nuovo che doveva far sì che un tentativo intrapreso con tanta serietà dovesse subito miseramente fallire. Mi sentii subito male, ma seppi che cosa mi facesse soffrire soltanto quando fui lasciato solo. Una folle, amara gelosia per il giovane dottore. Lui bello, lui libero! Lo dicevano la Venere fra’ Medici. Perché mia moglie non l’avrebbe amato? Seguendola, quando se ne erano andati, egli le aveva guardato i piedi elegantemente calzati. Era la prima volta che mi sentivo geloso dacché m’ero sposato.”
Questa seconda dipendenza o, se si preferisce, questa risposta nevrotica alternativa, la gelosia, si mostra fin dall’inizio molto peggiore di quella originaria, la schiavitù della nicotina. Per un uomo come Zeno, che ha fatto dell’ironia e dell’understatement le sue sottili arme di difesa contro il male di vivere, il fumo della sigaretta è senz’altro preferibile al fuoco della gelosia. “Ora non fumavo già da mezz’ora e non ci pensavo affatto, occupato com’ero dal pensiero di mia moglie e del dottor Muli. Ero dunque guarito del tutto, ma irrimediabilmente ridicolo!”
La stessa scelta lessicale, nella sua apparente neutralità, è significativa: Zeno non si sente tormentato, o assillato, o ossessionato dalla gelosia, bensì, semplicemente, occupato. È solo una questione di involucri che si svuotano e si riempiono, di spazi che si rendono disponibili per nuovi ospiti indesiderabili, per nuove malattie.
Che ci si trovi di fronte a un problema di questo tipo (volumi da evacuare, volumi da riempire) è del resto chiarissimo anche al medico. Infatti, non appena Zeno chiede da bere, l’infermiera-guardiana Giovanna gli porge entusiasticamente una bottiglia di cognac, ancora sigillata, che il dottor Muli ha lasciato pronta per lui, a sua disposizione. Anzi, Zeno ne potrà avere dell’altro, in qualsiasi momento: “– Tanto quanto ne vorrà! Per soddisfare un suo desiderio la signora che dirige la dispensa dovrebbe levarsi magari a mezzanotte!”
Ma naturalmente Zeno, come ogni vero “drogato”, è interessato solo alla sua droga, e ha per le altre un atteggiamento di superiorità che sconfina nel disprezzo. Del vino arriverà addirittura a capovolgere, molto più avanti nel corso del romanzo, la sua virtù proverbiale. “Il vino è un grande pericolo specie perché non porta a galla la verità. Tutt’altro che la verità, anzi.”
Perciò, una volta verificato che la disintossicazione dovrebbe consistere in nient’altro che in un’intossicazione di nuovo genere, Zeno si accosta alla bottiglia come allo strumento della sua liberazione, cioè del suo ritorno alla rasserenante dipendenza dalla nicotina. Ubriaca la sua carceriera ottenendone, dapprima, undici sigarette ungheresi, di qualità scadente, e subito dopo il sonno e la conseguente sospensione della sorveglianza. Fugge dalla casa di cura.
“La notte era chiara e calda. Mi levai il cappello per sentir meglio la brezza della libertà. […] Intanto in un caffè ancora aperto mi procurai delle buone sigarette […] Addormentandomi pensai di aver fatto bene di lasciare la casa di salute perché avevo tutto il tempo per curarmi lentamente. […] Assolutamente non v’era fretta.”
La minaccia di un vuoto fagocitante, pronto a riempirsi di contenuti estranei e perturbanti, si è felicemente allontanata. Il fumo ha ripreso il suo posto ed ha scacciato il fuoco. E la salute? La salute è il più vago e indistinto dei concetti: il fumo sembra negarla, minandola, ma in verità la rappresenta in modo esemplare. Di più fumoso della nozione di salute c’è solo la nozione di malattia. Nella penultima pagina del romanzo Zeno arriverà a questa folgorante conclusione: “A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite.”
Ecco ritornare il tema delle cavità, dei vuoti da riempire. Curare è turare, niente più di questo. Ma è un’azione vana; i buchi sono previsti dall’anatomia, indispensabili alla fisiologia, e la morte è l’esito immancabile della malattia di vivere.
Nella sua arguzia cinica e paradossale, Zeno pone sul tappeto con lucidità inusitata un interrogativo inquietante. La medicina vuole e sa disintossicarci dalle sostanze: ma chi ci disintossicherà dalle forme?


*Questo articolo, già apparso sulla rivista “Medicina delle tossicodipendenze” (oggi “Medicina delle dipendenze”), n.1-2, 1997, pp. 48-50, con il titolo Disintossicazione e letteratura: il caso di Zeno, viene qui riproposto con un nuovo titolo e con alcune modifiche.