Vorremmo vivere in The Office
My doctors can’t explain
My symptoms or my pain
But you are my strange addiction
(My Strange Addiction, Billie Eilish, 2019)
Se c’è una cosa che abbiamo capito della serialità è che capire la serialità è difficile. Grandi saghe cadute in disgrazie e piccole produzioni diventate fenomeno globale lo dimostrano. Alla base delle ondate ci sono sicuramente fattori prevedibili. Fra questi la popolarità del protagonista, la diffusione su una piattaforma, l’attualità dei temi. Ma il quid continua a essere un mistero. È il caso di The Office, serie americana andata in onda fra il 2005 e il 2013. Tratta dall’omonima idea di Ricky Gervais per la BBC a inizio millennio, il reboot è così popolare da aver fatto dimenticare l’esistenza dell’originale. La trama è incredibilmente semplice: una troupe sta girando un documentario sulla filiale di provincia di una grande azienda. A introdurre i suoi dipendenti è Michael Scott (Steve Carell), un manager quarantenne dai capelli diradati che mette a disagio i suoi sottoposti con battute inopportune. A differenza di altre serie di quel periodo, The Office non ha risate di sottofondo e i protagonisti sono più o meno consapevoli di essere ripresi. Elementi non di per sé innovativi, ma che saranno fondamentali per staccare la serie dal filone di Seinfield o Friends. In altre parole, mettendola al riparo dal passare del tempo. Al di là della comicità surreale e dell’ironia scorretta, la serie è, in definitiva, il ritratto di una mediocrità ostentata e rivendicata. A pochi anni dalla crisi del 2008, The Office segue le vicende umane e lavorative di una piccola filiale di un’anonima azienda, la Dunder Mifflin, che – in tempo di rivoluzione digitale – sopravvive vendendo carta. I personaggi non sono né troppo ordinari, né troppo intraprendenti; la città scelta, Scranton, non è né troppo isolata, essendo a due ore da New York, né troppo grande. E così via. Amori fugaci e non, gag comiche, cringeness, e piccole miserie si alternano – con alti e bassi – lungo le nove stagioni della serie. Ma ciò non spiega perché, a dieci anni dall’ultima messa in onda, la serie abbia iniziato a diventare di culto a livello globale, soprattutto fra chi nei primi anni 2000 era a stento in età scolare. La risposta è semplice e c’entra con il rapporto che i venti-trentenni hanno oggi con il lavoro. Precario, tormentato e frustrante, il mondo professionale genera spesso un cortocircuito fra ambizione e realtà. Lo scontro fra l’iperspecializzazione delle nuove leve e l’offerta di lavoro dequalificato genera insoddisfazione e insicurezza, così come l’assenza di qualsiasi stabilità pregiudica fortemente il benessere psicologico di molte e molti. Il mix diventa poi fatale quando ci si trova sovraesposti a narrazioni tossiche di successi artificiali e di comfort zone stigmatizzate. Tra chi prova angoscia a presentarsi nello stesso ufficio tutti i giorni e chi un ufficio non sa neanche com’è fatto, i più giovani cercano quindi disperatamente appigli per comprendere (o esorcizzare) la quotidianità. Qui The Office torna prepotentemente d’attualità. Dietro il velo comico, mostra ciò che oggi è spesso precluso: una tranquillità economica ed esistenziale dove il senso di oppressione e la conflittualità scoppiano come una bolla di sapone. In The Office crisi, bassa produttività e ansie smettono di essere un problema. A contare, all’interno dell’orario di lavoro, sono unicamente i rapporti umani, non avvelenati dalla competitività più avida. Se il personaggio di Michael, manager inetto e insicuramente bisognoso d’affetto, nasce come parodia dell’incapacità di comando (pardon, management), oggi appare più come un filtro del mondo esterno. È lui, infatti, che neutralizza qualsiasi pressione esterna con il suo infantilismo, evitando che venga trasmessa ai dipendenti. Tant’è che, nelle rare occasioni in cui il protagonista viene esautorato dai superiori, non si può che avvertire un senso di fastidio. Le relazioni umane, seppur comicamente disfunzionali, sono quindi decisamente autentiche. Tant’è che il venditore più brillante può lentamente innamorarsi della segretaria, vincendo la rivalità del magazziniere; il discredito fra il dipendente e il capo è manifesto; la superiorità e l’ingenuità del nerd single è inguaribile e ostinata; l’omosessualità del contabile viene affettuosamente affrontata a suon di stereotipi.
Ma, soprattutto, quella della serie è una realtà in cui l’ordinarietà smette di essere un peccato originale da cui liberarsi. Ogni personaggio, pur conducendo una vita di provincia e senza colpi di scena, riesce – nonostante tutto – a realizzare la propria vita e influire, seppur minimamente, sull’universo circostante. E, mal che vada, si va a bere al pub. Lo scapolo Michael trova una donna tanto stramba quanto lui con cui essere felice, il popolare Jim riesce a metter su famiglia, il nerd Dwight supera la sua apatia relazionale, e così via.
Si tratta di una boccata d’aria fresca per tutte e tutti coloro costretti a sacrificare la propria individualità al cospetto del mito della produttività e della visibilità, cadendo inevitabilmente nella tragedia che viene addolcita dall’anglisicmo burnout. Sconfessata quindi la convinzione che il futuro sarà migliore nel passato, i figli del nuovo millennio pescano nostalgicamente a piene mani dai modelli del passato. Naturalmente ad attrarre non è la vita di paese, le scrivanie con i ficus o la cravatta in ufficio, ma la relativa ingenuità di un mondo percepito come più facile e più comprensibile. Una realtà in cui il digitale portava con sé unicamente progresso e non ancora solitudine e aberrazione. Non a caso, la singola macchina con cui è girato ogni episodio opta sempre per piani densi e stratificati, dove al centro non c’è l’ambiente o il singolo soggetto ma l’insieme umano. È totalmente l’opposto della narrazione da social network, in cui nel formato 9:16 non ci entra che una persona.
È opinione comune, anche fra gli stessi sceneggiatori e attori della serie, che The Office non avrebbe mai potuto essere stato concepito e prodotto oggi. Fact. Sicuramente nell’intrattenimento non c’è più posto per comicità scorretta, stereotipi e doppisensi, ma il punto non è questo. Probabilmente nessuno è disposto a mettersi seriamente in discussione, ad abbracciare la mediocrità e puntare sul rapporto fra umani. Tantovale riderci sopra, o forse piangerci: tutto purché sia sufficientemente lontano nel tempo da non toccarci, ma abbastanza vicino da sentirne il calore.