Maria
«Saltai dal treno che cadevano le bombe e avevo paura, tanta paura che non mi faceva pensare a niente, solo a buttarmi dal treno e a correre. Avevo tua madre nella pancia e non volevo che morisse così. Stavamo andando a Bari da Gennaro che era convalescente là, all’ospedale militare. Volevo fargli sentire la figlia, la nostra creatura, che mi scalciava dentro. Ero uscita all’alba, di nascosto, senza dire niente a nessuno e avevo preso il diretto Napoli-Bari, zeppo di gente che scappava o tornava, di donne e di uomini, di vecchi e pure di bambini, cristiani che volevano fuggire da Napoli bombardata o tornare dai familiari in Puglia, in cerca di un ricovero, per salvarsi o ritrovare qualcuno. Una donna gentile mi aveva ceduto il posto nel vagone affollato, aveva guardato la pancia e aveva capito. Si sudava, si parlava poco, ognuno pensava a qualcosa in silenzio, sembravamo spiritati, ammassati senza conoscerci, uniti dall’attesa e dalla disperazione. L’aria pareva sciroppo, si soffocava e si resisteva. Poi all’improvviso il primo scoppio, come un tuono moltiplicato, poi un altro, vicinissimo come un terremoto, che fece sobbalzare il treno e fracassò i vetri delle carrozze. Iniziai a spingere, come in un brutto sogno, per uscire dalla carrozza. Tutti si ammassavano senza direzione, urlavano, imploravano la Madonna e piangevano, cogli occhi dilatati dal terrore lanciavano sguardi che chiedevano cosa fare, di chi non vuole morire. Nel corridoio non si passava, la calca dei corpi era insormontabile. Arrivarono altri urti fragorosi, il treno sbandò, rallentò, si arrestò quasi, mi guidò l’istinto, cacciai i piedi dal vetro rotto e mi gettai giù, tenendo le mani serrate sulla pancia ovale, per proteggere la bambina dalla caduta. Mi rialzai con la schiena che era solo dolore e iniziai a correre all’impazzata nel campo aperto, vedendo sott’occhi delle voragini enormi intorno al treno. Mi mancò il fiato, mi gettai faccia a terra, con le mani in avanti, sentì una fitta straziante nella pancia, restai stesa pregando la Madonna santissima di salvare almeno la mia bambina, tua madre. I camion dell’esercito vennero a recuperarci, le ambulanze caricarono i feriti. Nei sacchi sigillarono i morti. Mi sollevò un soldato che disse “Vieni torniamo a Napoli”. La sera, col vestito stracciato, piena di graffi e lividi ovunque, mi intrufolai a casa e mi infilai sotto alle coperte vestita, per non farmi scorgere da mio padre, che dopo aver scolato un litro di vino alla cantina, al rientro, veniva sempre a controllare che fossi nel letto. Sai, mio padre era un uomo terribile, un vaccaro, una specie di guappo che manteneva l’ordine nel quartiere. Venivano tutti da lui per appianare le questioni e lui, con l’autorità e il rispetto che gli veniva dall’essere temuto, metteva le cose a posto».
Esile, la pelle aggrinzita che aderiva al corpo agile, gli occhi vispi di una che non si piega alle chiacchiere del mondo, i capelli bianco nuvola corti sul viso rugoso e delicato, gli occhiali sempre appannati da un velo di vapore. Parlava con le dita nevrotiche che vibravano di vita propria. Era Maria. Era mia nonna.
Tra noi correva un invisibile filo d’acciaio di solidarietà. Lei diceva «i figli dei figli sono due volte figli», e io sapevo che quel detto valeva soprattutto per me, tra le decine di nipoti che aveva. In fondo ero cresciuto con lei, dopo la morte di mio padre, e per quanto gli affetti si distribuiscono ce ne sono alcuni più forti. Amiamo qualcuno più di altri, in modo speciale, senza neppure giustificarlo a noi stessi, accade e basta. Maria e io ci amavamo perdutamente, con la cieca tenacia di chi si è scelto al di là della ragione. Il nostro legame era ancestrale, immotivato come i grandi amori. Mi aveva sempre protetto dalle furie legislatrici del marito, schierandosi, col corpo, tra me e la violenza delle regole. Ero l’unica persona di cui desiderasse avere cura. Solitamente abbandonata sulla sedia attaccata al davanzale, a guardare fuori, per ore, si alzava per compiere atti di gentilezza. In tarda mattinata veniva a svegliarmi, mentre dormivo dopo le notti in bianco, con una tazza di latte di 70 gradi Celsius, cantilenando il mio nome finché non aprivo gli occhi, «Michè, Michè scetati a nonna», e io per farla smettere tendevo la mano da sotto le coperte, ad afferrare la ceramica incandescente, l’ustione era puntuale e ciclica. Folgorato, mi stizzivo e lei per rabbonirmi beveva il tazzone a lunghi sorsi, mangiando pure la merendina di accompagnamento. Il sabato mattina, poi, mi chiamava a sé tendendo, furtiva, un pugno. Dentro al pugno il suo fazzoletto che avvolgeva ventimila lire destinate a me. Non ho mai compreso il ruolo del fazzoletto.
Spesso mi accantucciavo accanto a lei per ascoltare i suoi racconti che venivano da un’altra epoca. In casa dicevano che la nonna era esaurita, era stata ricoverata a lungo in una clinica per malattie nervose, era stata tra le ultime in Italia a subire l’elettrochoc. Era l’essere più vicino a me, cinquanta chili di pelle rattrappita e poesia. Quando camminava pareva fluttuare di qualche millimetro, aveva un passo talmente felpato che non se ne avvertiva mai il suono, spostava il suo corpo impalpabile con la leggerezza di un petalo che cade al suolo. La nostra intimità aveva le forme mute della complicità. Le facevo degli scherzi: uscivo dalla doccia e alle sue rimostranze sulla mia magrezza mi gettavo al suolo svenuto, lei accelerava i passi lievi per chiedere soccorso alla vicina e al mio rinvenire sbottava stizzita, poi rideva, coi piccoli denti rimasti a vestigia di un sorriso limpido. Mettevo Rock the Casbah dei Clash e la travolgevo nel ballo; si ritraeva, cercando di sottrarre le braccia timide, spingendomi senza forza, la cingevo e la facevo volteggiare inerme, rideva. Cogli amici inginocchiati strisciavamo fino alla poltrona, che era l’altra postazione fissa, e le cantavamo O Marì, o Marì, sul motivo di Toffee di Vasco Rossi. Delle antiche nevrosi le era rimasta la gelosia farneticante per il marito, accusato di corrispondere con la signora del terzo piano attraverso un paniere clandestino destinatario di bigliettini d’amore, o di tingersi capelli e baffi con quella che in realtà era schiuma da barba; la amavo quando la vicina passava davanti alla nostra finestra e lei la apostrofava con “pereta”. Le era rimasta attaccata ai neuroni la fissazione per malattie immaginarie che venivano definite attraverso suggestive metafore tipo “tengo un comò sulla testa”, o comprovate dalla “lingua di fuoco” che puntualmente mi mostrava per avere almeno il mio assenso. «Guarda, guarda qua» e srotolava una lingua rossastra e morbida, al cui fondo titillavano le tonsille come batacchi di campana. A Natale le impacchettavo con un fiocco sontuoso una scatola dei suoi beneamati Tavor, senza i quali non si sarebbe mai addormentata. E me la immaginavo, Maria, da bambina, figlia del terribile vaccaro coll’orologio nel panciotto, nei vicoli scuri di Materdei, Maria esile, elegante, giovanissima in una foto degli anni Trenta col vestito a tubino, lungo fino alle caviglie, col filo di perle e lo chignon e le occhiaie accennate sotto agli occhi scuri e malinconici. Maria innamorata del suo Gennaro, che aveva dovuto strappare alla concorrenza delle intriganti operaie della fabbrica dove lui montava scarpe; il bel Gennaro col baffetto sottile di quegli anni; Maria che faceva la rivettatrice e voleva fuggire da casa, dall’autorità e dagli stenti; Maria che correva incinta sotto alle bombe anglo-americane perché l’amore per Gennaro era più tenace della guerra; Maria nella casa col giardino nel cuore di Napoli a crescere sei figli, anzi «sette perché uno l’ho perso, si chiamava Mario e morì subito»; Maria con l’esaurimento nervoso e uno stantuffo in bocca per non mordersi la lingua quando arrivava la scarica elettrica, che dopo non riconosceva neppure i figli suoi; Maria che la vita se l’era lottata e adesso era una poesia in un corpo rugoso e lieve.