Cría cuervos: i fantasmi del passato nel surrealismo di Carlos Saura

Molto spesso storia e memoria seguono due binari diversi: la prima impegnata a riproporre stancamente drammi collettivi, la seconda a rievocare drammi personali. È su questo cortocircuito che si sviluppa parte della filmografia di Carlos Saura, maestro spagnolo scomparso lo scorso febbraio. Saura, più piccolo di una generazione rispetto a Luis Buñuel, vive in prima persona il dramma della Guerra Civile e dell’isolazionismo franchista. Il regista aragonese cresce in un Paese che – anche a decenni dalla fine della guerra – continua a marcare la differenza fra vincitori e vinti, relegando i secondi all’esilio o al silenzio. Saura, a rischio della vita, non sceglie né l’uno né l’altro: rifiutandosi di lasciare la Spagna, realizza al contempo film scomodi e spesso soggetti a censura.
Dopo una prima fase artistica in cui la relazione con il neorealismo italiano è ancora fortissima, l’aragonese vira verso uno stile che sublima le sofferenze del singolo nel surrealismo. Ecco perché, visti i precedenti, Cría Cuervos arriva al momento e al posto giusto. Franco è prossimo alla morte e la Spagna inizia a sperimentare voglia di cambiamento e rinnovamento, tentativi puntualmente repressi nel sangue. Da lì a poco inizierà la lunga e delicata fase di Transición, ovvero il lungo passaggio, durato oltre un lustro, che porterà il Paese a darsi una forma realmente democratica. Nel frattempo, però, regna disillusione e cupezza. Il regista si cimenta quindi nel compito più difficile: leggere gli intermezzi e interpretare gramscianamente le fasi storiche di transizione. Per fare ciò Saura ritorna all’inestricabile nodo di storia e memoria. In Cría Cuervos i due piani si intersecano fino a diventare indistinguibili e inscindibili: i ricordi del singolo diventano la storia di un Paese; il deserto sociale diventa deserto interiore. I mostri del passato prendono letteralmente la forma dei fantasmi: il film è incentrato su un’estate nella vita della piccola Ana, che ha da poco perso la mamma per una grave malattia e successivamente il padre.
La madre di Ana, interpretata favolosamente da Geraldine Chaplin (figlia d’arte del ben più noto Charles), rappresenta la tenerezza, la gioia di vivere, la resistenza morale a ogni tentativo di oppressione, sociale, di genere o familiare che sia. Il padre, ufficiale franchista della temibile División Azul, è comprensibilmente il comando, la vigliaccheria, la pulsione alla morte tipica di ogni regime fascista. Non è un caso che al funerale del padre – che Ana rifiuta di onorare – venga associata una delle riprese più cupe dell’intero film, un contre-plongée che rivela la miseria umana nei volti dei suoi camerati.
Ormai orfana di entrambi i genitori, Ana è affidata alla zia materna – amorevole ma fragile – e alla governante – una ama de casa in pieno stile almodovariano. È a causa di questo trauma che la bambina sviluppa una relazione immaginaria, se non ultraterrena, con la madre. In tale legame risiede la vera forza del film. La presenza del fantasma materno spezzetta continuamente la linea temporale degli eventi, fondendo passato e futuro in un eterno presente. Grazie al fantasma immaginario della madre, la bambina è condotta verso una piena consapevolezza del proprio passato e della propria storia. Saura in questo è fortemente interessato a realizzare un film didattico, come da stile degli anni Settanta, facendo guardare in macchina le due protagoniste mentre sono impegnate a ricostruire un passato doloroso. O almeno, ricostruirlo finché entrambe hanno la forza di farlo, dato che il disagio psicologico si trasforma presto in malattia fisica e aria di morte. Ne è un esempio l’anziana nonna che, dalla sua sedia a rotelle, passa tutto il giorno a guardare vecchie foto, piangere e ascoltare canzoni d’epoca. È infatti proprio con le foto, prova tangibile dell’intreccio fra storia e memoria, che si apre il film. Tanto per dare, già dai primi frame, l’idea di quanto possano essere dolorosi i ricordi felici nei momenti bui.
In questa allegoria familiare, simbolo di una catastrofe sociale, non c’è spazio per ottimismo e speranza. La narrazione che Ana fa della sua estate nefasta arriva direttamente dalla sé stessa adulta, e quindi oltre vent’anni dopo dal momento presente. Saura non ci concede sapere di più sulla vita di Ana da grande, e quindi su cosa succederà in epoca post-franchista, ma lo sguardo perso della Chaplin (che, sì, interpreta poeticamente anche Ana da grande) ci lascia presagire un futuro scuro e desolante. Ne abbiamo la conferma nella sequenza finale. L’estate è finita e Ana si appresta a ritornare a scuola. Dopo mesi passati nell’isolamento della propria villa borghese abbiamo finalmente il privilegio di spiare la Madrid tardo-franchista. Saura indugia maliziosamente su alcuni particolari urbani, con la maestria di chi riesce a parlare con un semplice sguardo. Sui muri ci sono scritte (di protesta?) cancellate, apprezzamenti per il Re Juan Carlos, all’epoca visto come pupillo del regime, e bandiere americane a completare il paesaggio. A vent’anni dal 1975 le cose andranno ovviamente in modo diverso: ci sarà la Movida, la rinascita di una società civile, l’internazionalizzazione. Ma Saura all’epoca non poteva saperlo: la sua visione pessimista è una testimonianza storica in presa diretta, per sua natura impegnata e parziale. Ritornando al film: la bambina, ormai spinta dal contesto a un innato desiderio di morte, diventa il frutto malato di una società che non ha saputo costruire il suo futuro. D’altronde il titolo del film, che richiama un celebre proverbio spagnolo, non manca di sottolinearlo: “Cría Cuervos y te sacarán los ojos”. Cresci corvi e ti caveranno gli occhi.