Memoir 7 – Sunday morning
Sta guardando te. Non l’obiettivo della tua macchina fotografica. La posizione è rilassata: il busto inclinato a sinistra – la tua destra – e in avanti, la testa lo segue. E sta guardando te. Con distrazione, l’aria quasi sfrontata e seria. Forse fa caso anche alla fotocamera, però non sta proprio posando. È nel flusso delle foto, ma è come in una brevissima pausa in cui sembra dirti: «E ora?». Una mano sulla coscia chiude l’abitino tra le gambe. Il vestito è bianco e corto. Lo portava spesso quando andavamo a provare uno spettacolo a cui avevamo dato il titolo di Sunday Morning, come la canzone dei Velvet Underground, a cui sembrava ispirarsi: in fondo attraversiamo tutti lo stesso sconforto, ci siamo detti. Allora dichiariamolo citando una canzone che ci piace. Con il carillon e le nostre aurore. Lo spettacolo raccontava, attraverso la sua danza, una giornata nella vita di una donna. Quando la luce arancio dell’alba, filtrata dalle tapparelle nella sua camera, è la promessa di un giorno diverso. Quando, nel risveglio, il sole di una domenica mattina porta con sé i pensieri su ciò che è e su ciò che è stato e il movimento languido della speranza muove verso la delusione. “Domenica mattina, entra l’alba, è solo un’inquietudine al mio fianco. Albeggia presto. Domenica mattina, sono solo gli anni sprecati troppo vicini”, cantava Lou Reed. Sono stati davvero sprecati quegli anni? La donna è in compagnia degli eventi che le hanno dato l’identità e l’hanno consegnata a un’esistenza, così pensa, irrisolta. In stanze chiuse a chiave senza serratura: solo il riflesso di esperienze, di sentimenti e luoghi attraversati e abitati, uno dietro l’altro. Forse questo è un giorno dopo qualcosa di effimero, un finto divertimento, una falsa allegria, accarezzi il tavolo con le bottiglie vuote e i bicchieri rovesciati di una festa finita. Sei sola e i pensieri sono mossi da una musica lontana di altre solitudini. La mattina volge al pomeriggio di una relazione diventata angusta come lo spazio che non riesci a misurare, te ne rendi conto. L’interno che ti rinchiude è sempre più vuoto e non ce la fai a uscirne. È così difficile spogliarsi dell’abito quotidiano reso stretto dagli errori. Le inquietudini scandiscono il tempo che muta come la luce del giorno alterata dalle gelatine color pastello sui riflettori puntati sopra il suo corpo. La luce è calda. Poi l’abito è tolto nel ballo ed è lasciato là, dimenticato su una sedia in un angolo. «Non possiamo fare niente contro il passato» – pensavo a Garrel quando ho scritto questa frase – «se non cercare di non guardarlo quando entra nelle nostre stanze presenti e sperare di non incontralo più nei viali del futuro», dice lei. «Essere nessuno in strade sconosciute: nessuno e straniera. Quindi chiunque: tutti. Finalmente me stessa», continua quando riesce a fuggire, in una fantasia o nella più vera delle realtà, dalle stanze di un appartamento che non ha mai voluto abitare. Nel raggio di sole di un giorno fuori da tutto. Dimenticare l’indirizzo. «E poi non resterà che la mia assenza come sola presenza, un angolo vuoto… questo è tutto… “non è niente”». Altre stanze. Un’altra luce. Lo stesso lenzuolo sullo stesso letto. “Domenica mattina e sto cadendo. Ho una sensazione che non voglio conoscere. Albeggia presto. Domenica mattina, sono tutte le strade che hai attraversato non molto tempo fa”. Domenica mattina. Con “solo un’inquietudine al mio fianco”. Sunday Morning lo intendevamo come una lettera di addio o di arrivederci, non lo sapevamo: parole di un corpo scalzo in mutandine e reggiseno bianchi, un piccolo abito.
Le avevo raccontato che il brano era stato scritto proprio una domenica mattina, molto presto, all’alba, da Lou Reed e John Cale, erano nello studio di registrazione newyorkese pagato da Andy Warhol, era il novembre del 1966 e Lou Reed lo cantò con una voce suadente quasi femminile per toglierlo a Nico a cui era destinato ma alla quale l’invidioso Lou non aveva nessuna intenzione di dare: quello era il singolo che anticipava l’album e il loro debutto e non si sarebbe mica fatto soffiare la scena da quella cantante tedesca bionda e bellissima. Poi avevano litigato. Lei, nel pezzo, era relegata al ruolo di corista. Si sente appena. Questa cosa gliela raccontavo ogni volta perché mi dimenticavo di avergliela già detta. O perché mi piaceva raccontarle episodi della storia del rock. Lei mi ascoltava. Forse per farmi contento.
Quando penso a Nico mi viene sempre in mente la scena de La dolce vita di Federico Fellini in cui lei, insieme a Marcello Mastroianni, bellissimo anche lui, chiede un passaggio in macchina a Via Veneto per andare a una festa in un castello fuori Roma e dice: «Ci porti queste due creature infelici?». Era bella e infelice, Nico Christa Päffgen. Le avevo raccontato anche della sua veloce e sfortunata storia d’amore con Alain Delon, da cui era nato Ari, che l’attore francese non aveva mai voluto riconoscere. Lei aveva ventiquattro anni e una vita da sbandata d’avanguardia, così il bambino, dopo essere finito in overdose per la droga datagli dalla madre, lei ne registrò il respiro attaccato alle macchine dell’ospedale, fu affidato alla nonna paterna, Édith Boulogne, nonostante il parere contrario di Delon, e lei prese a farsi di eroina sempre di più per la mancanza del suo petit chevalier a cui aveva dedicato Ari’s Song. Il bambino cantava proprio in Le petit chevalier. Poi il bimbo divenne un uomo rovinato dalla droga e dalle mancanze come la madre. Entrambi invecchiati precocemente, lui, più bello del padre, sembrava una specie di Antonin Artaud del declino e dell’annientamento, curvo su sé stesso, senza alcuni denti e con la sigaretta fatta con le cartine tra le dita e le labbra secche, rideva perduto, lei solo la copia appesantita dallo sguardo allucinato e vuoto e dai capelli neri di quando era la bionda modella a Parigi per Maywald e Coco Chanel e per le riviste Elle e Vogue. Lui, dopo il ricovero in un ospedale psichiatrico di Parigi per due mesi e in un centro di recupero nel Sud della Francia, giurò a sé stesso di diventare abbastanza forte per affrontare un giorno il padre e onorare così la memoria della madre, con la quale, fino all’ultimo, si era scambiato la siringa e aveva diviso le pillole. Un giorno Alain e Ari si videro, l’incontro forse fu sereno. Non si incontrarono però mai nel tribunale d’Orléans a cui Ari si era rivolto perché fosse riconosciuto come suo figlio legittimo e poter mettere, finalmente, accanto al nome di Christian Aaron Boulogne, quel Delon inseguito per tutta la vita.
Le raccontai anche della relazione sentimentale di Nico con il regista Philippe Garrel. J’entends Plus la Guitare del 1991 era dedicato a lei, uscita da più di dieci anni dal loro rapporto di coppia e da tre per sempre dai suoi giorni. Restava in quel lungometraggio chiamata Marianne e interpretata da Johanna Ter Steege, lui, Garrel, con il nome di Gérard, era l’attore Benoît Régent, e impressa sulla pellicola economica e scaduta di vari film. Garrel nel suo cinema si sarebbe domandato di continuo il perché di quella morte e di loro due nell’appartamento nero a Rue Richelieu nel 1° arrondissement di Parigi, seduti sul pavimento al freddo di un amore che si consumava piano piano fino allo sfinimento. J’entends Plus la Guitare raccontava di quando lei gli parlava, quando non diceva niente, quando gli mostrava la sua droga con un sorriso, quasi incosciente e ingenua. E la raccontava che si drogava quando era una pena lasciare il suo bambino dopo averci passato qualche ora. Era la sua cicatrice intérieure.
Una volta siamo andati a una conferenza di Philippe Garrel. La sala era grande e fredda. O meglio, non era poi così grande, ma il pubblico presente, tutto concentrato nelle prime file costituite da sedie di plastica e metallo lucido, le luci troppo forti che illuminavano solo il tavolo dove c’erano il regista e i suoi relatori, lasciando il resto del luogo in una sbiadita ombra, facevano apparire quello spazio più grande di quanto fosse. Non ricordo di quale film parlasse il regista, forse era in corso una retrospettiva del suo cinema; non ricordo perché avevamo sonno, stavamo seduti appartati su una lunga panca di legno come quelle delle moderne chiese di periferia e lei a un certo punto ha tirato su i piedi e si è sdraiata chiudendosi nel suo soprabito.
«Vuoi che andiamo via?», le ho chiesto.
«No, non preoccuparti, restiamo», mi ha risposto. Sapeva che a me piacevano i film di Garrel.
«Sono solo un po’ stanca, tengo gli occhi chiusi».
Dopo pochi minuti che si era addormentata, l’ho scossa con delicatezza, era così fredda, e le ho detto: «Andiamo, dài».
Questa volta si è alzata insieme a me.
Per strada, il vento gelido ci ha svegliato, avevamo riso di qualcosa per non portarci dietro la tristezza che ci aveva preso per quell’incontro desolato: Garrel, piccolo e dimesso in fondo, i capelli arruffati, che parlava alle poche persone strette in giubbotti e paltò, era un’immagine malinconica. Ma forse la vedevamo così solo per la stanchezza. Non abbiamo commentato la serata. Di Nico le avevo parlato un’altra sera d’inverno, camminando lungo un grande viale del centro, le vetrine accese dei negozi chiusi e i lampioni che rischiaravano l’esausto struggimento di quella storia che passo dopo passo accentuava il freddo sui nostri visi e sotto gli abiti mai sufficientemente caldi, ricordo i movimenti delle sue mani nei guanti di lana verdi. Le ho raccontato della morte della cantante, avvenuta in un giorno di luglio del 1988, quasi di fretta, come per non farle sentire tutto il suo dramma, solo un accenno, senza troppo dolore.
«Stava andando in bicicletta a Ibiza e l’hanno trovata al margine della strada», dice Aline, la nuova donna di Gérard, l’attrice Brigitte Sy (in quel periodo moglie di Garrel e sieropositiva per la tossicodipendenza), in J’entends Plus la Guitare. Lui non riesce a parlare: neanche una parola. Piange solo sommessamente coprendosi la bocca e facendo avanti e indietro per la stanza del loro appartamento. Abbiamo passeggiato ancora a lungo in silenzio. «Che brutta storia», poi lei ha detto, e ci siamo fermati davanti a un negozio di vestiti da donna, lei mi indicava quali le piacevano di più, con ritrovata allegria e l’entusiasmo di chi ama la moda. Sapeva disegnare e cucire abiti molto belli. Ricordo che quello panna se lo toglieva per mettersi in tenuta da danza, di solito calzoncini e una larga maglia. Prima di andare via, beveva una lunga sorsata d’acqua dalla bottiglia che infilava nella borsa con gli abiti zuppi e il CD della musica, una composizione per quartetto d’archi e pianoforte di suo fratello contrabbassista. Lasciavamo la sala con lei con l’abitino sul corpo ancora accaldato. La sala era bianca, a volte era quella grande del centro di danza ed era tutta per noi due. Non ricordo se lo indossasse anche in scena. Ricordo però che lo spettacolo iniziava con lei sdraiata a terra avvolta in un lenzuolo bianco e di cotone come l’abito. Era a seno nudo e accendeva un abat-jour posto al suo fianco costruito da suo padre esperto artigiano della luce. La luce tra il latteo, l’ocra e riflessi arancioni ben si intonava con il candore del lenzuolo e la sua pelle abbronzata. Sì, forse il vestito ce l’aveva anche in una scena. Probabilmente nella parte in cui danzava suonando il violino. Non ci giurerei. Ma a me piaceva quando lo portava per andare alle prove. Poteva, dunque, anche non averlo addosso durante lo spettacolo, alla fine del quale recitava quelle frasi che avevo scritto io: l’unico contributo a uno spettacolo tutto suo. Mi piaceva quando non ci faceva caso nell’indossarlo. Quando non pensava a chi l’avrebbe guardato dicendole «Che bel vestito, come ti sta bene!». E mi piaceva mentre mi guardava senza pensare che la stavo fotografando. Scatto. Lei sorride.