L’antico profumo delle fiabe. Maschere a Bergamo

All meinen Unmut gab ich preis;
Aus meinem sonnunrahmten Fenster
Beschau ich frei die liebe Welt
Und träum hinaus in selge Weiten…
O alter Duft – aus Märchenzeit!

Lasciai cadere tutto il mio malcontento,
dalla mia finestra incorniciata di sole
liberamente contemplo il mondo amato
e sogno fuori negli spazi beati…
O antico profumo del tempo delle fiabe!

Così recita una voce in tedesco sul sottofondo di una musica dissonante. L’ultima luce del sole indora davvero il cielo contro il quale il profilo della città alta si staglia per un attimo più nettamente, prima di avviarsi a sparire del tutto, mentre la luna già campeggia lassù.
Forse stasera c’è uno spettacolo all’aperto in città alta. Ecco che qualcosa si muove tra gli archi del palazzo della Ragione. Una figura bianca, malinconica: il mimus albus. È Pedrolino, o Pedrulì: è nervoso e sembra aspettare qualcuno; per calmarsi va a prendere posto sul sedile in pietra dei condannati di una volta. Bel posto davvero! S’è appena seduto che un’ombra sguscia contro una delle colonne, di fronte al posto di polizia, scheggiata dai segni di baionette austriache: è il mimus centunculus, è male in arnese e affamato, sta arrivando dalla città bassa, informa il proprio vicino uno del pubblico che vuol fare il saputo: l’altro scuote la testa, senza alcun senso preciso, e il primo, incurante, incalza: è un po’ tonto. Il nuovo arrivato accenna ad avvicinarsi a Pedrulì ma poi, come impaurito quando l’altro ha alzato il capo verso di lui, si tira indietro e si mette ad andare avanti e indietro lungo il tracciato dell’orologio solare. Ed ecco che, urlando e rompendo l’atmosfera d’attesa silenziosa, un gruppo di bambini irrompe in scena recando delle bandiere con i colori della città. Dietro di esse sparisce il poveraccio. Quando finalmente la ventata vociante è scomparsa verso il vecchio Ateneo, di lui non c’è più traccia. Il pubblico sbotta in un mormorio di sorpresa: al suo posto ci sono ora due personaggi: uno con un vestito fatto di pezze di tanti colori; l’altro, è un contadino con tre gozzi. Arlecchino è seduto su una valigia e incomincia a dire, con un accento che comincia a essere veneziano, che gli tocca d’andar via, come sempre. Gioppino gli risponde in bergamasco, e le sue parole inciampano nel gozzo e si perdono nella sera. D’un tratto, si avvedono di Pierrot, o Pedrulì, e, guardinghi, si avviano verso di lui, tenendosi per mano. Arlecchino davanti, incoraggiando l’altro. Pierrot è immerso in strani pensieri, e sembra non avvedersi dei loro goffi tentativi. Ma Pierrot non stava aspettando qualcuno?, si chiedono fra il pubblico, e chi allora? Petrushka, o Pedrolino, si alza, finalmente, e Arlecchino e Gioppino si danno di gomito, per dire, ehilà, ci ha visti finalmente. Ma niente. Il mimus albus si guarda intorno, le volte a crociera su di sé, la piazza dinnanzi a sé e poi, piano, si gira e lentamente si avvia, a capo chino, verso la vecchia chiesa che chiude la scena e svolta, anche lui, verso l’Ateneo. Arlecchino e Gioppino si danno di nuovo di gomito e poi, a piccoli passi, lo seguono e, dopo di lui, svoltano nella stessa direzione.
La gente aspetta che ricompaiano, ma passano alcuni minuti, e poi ancora altri. Qualcuno comincia a chiamarli: Pierrot, Arlecchino, Gioppino, in italiano, in bergamasco. Ma niente.
Ma che rappresentazione è questa! esclama qualcuno. Ma che fiaba l’è questa qui! esclama qualcun altro. Ma poi anche la luna va giù, e tutto sprofonda nell’oscurità.
– Ma che fiaba è questa – mi dice anche lei, alla fine del mio racconto.
Ho l’impressione, improvvisa e netta, di un déjà vu. Ma rispondo lo stesso: – Son le fiabe che so raccontare.
E rivedo adesso quel volto, quella guancia che, nella penombra del sonno incipiente o del risveglio mattutino, mi si disegnano a fianco, nel letto, sulla tela del cuscino.
Solo, un vento dolce e fresco smuove un po’ di più quei sogni.

Bergamo, 22 luglio 1996


*Questo brano fu stralciato dal racconto La donna e la città confluito nel mio libro La linea dei passi, concluso negli anni Novanta ma pubblicato solo nel 2019. Reso autonomo, è rimasto inedito finora. Volevo riunire le tre maschere bergamasche che rappresentano i tre volti della città: il raffinato Pierrot (Pedrolino, Pedrulì, Petrushka), l’ingegnoso Arlecchino, il popolano Gioppino. In exergo, l’ultima poesia dal Pierrot lunaire di Arnold Schönberg: il testo francese di Albert Giraud, nel quale si nomina esplicitamente Bergamo, fu musicato nella versione tedesca di Otto Erich Hartleben (la traduzione italiana che si riporta è di Beniamino Fava). Il mimus albus, nelle Atellane, era vestito tutto di bianco, e viene considerato anticipazione di Pulcinella, ma anche Pierrot è “bianco”; il mimus centuculus, con abito variopinto, è a sua volta anticipazione di Arlecchino. Queste caratterizzazioni vengono qui usate con una certa libertà, ovviamente.