My generation

La storia della mia generazione naufraga sugli scogli di una disillusione dorata, generata da un sogno che sembrava esserlo altrettanto, uno sprazzo d’incoscienza ingombrante, adagiata sull’orlo dell’impossibile.
La musica ci ha salvato o condannato, ma un giudizio non è e non potrà mai essere sereno, ora come allora. Ci si incontrava in spiaggia o nell’umida penombra dei garage, un febbrile ciondolare fra lo stordimento e l’assenza di un’idea di futuro, nascosta da un taglio di capelli insolente. La maggior parte di quelli che frequentavo allora non cammina più su questa terra, un tributo pagato in contanti al fascino dell’autodistruzione.
Ma non per questo ci saremmo sentiti meno orfani dell’attenzione che pretendevamo, pensando che ci spettasse di diritto. Era la logica conseguenza di un passaggio epocale che pensavamo di aver compreso e di poter dominare, senza nulla dovere a chi ci aveva preceduto.
La fine degli anni settanta si stagliava come la liberazione dai residui organici di una lunga stagione di conflitti, che comprendevano la resa della coscienza sociale di fronte al dilagare dell’effimero, che presto si sarebbe trasformato nell’imprescindibile. Fiorivano le stazioni alcoliche, i muri anneriti dal candore degli slogan, i poco segreti mercati notturni per gli incalliti dell’ultima botta, quei dischi meravigliosamente sgangherati e sferraglianti, i film in bianco e nero a tarda notte o nei cinema d’essai destinati ad agorafobici incalliti.
Persino i soprannomi del catalogo umano rappresentavano una sintesi deformata di un’espressione, più che di un carattere. Ombra, Iena, Shock, Rospo, Frammenti di Marte, Gue, il vocabolario di una gioventù deviante, stordita dal valore della vertigine.
Iniziammo a vederci quasi ogni sera, devoti officianti di cerimonie vespertine rumorose quanto poetiche, in mezzo a amplificatori costruiti artigianalmente e lattine di birra scadente, fumatori orfani delle quantità richieste per aprire tutte le porte, considerata la tasca sofferente dei ventenni di allora. Animali affezionati a suoni asociali, a distorsioni povere di watt ma non di sensazioni, le nostre armi segrete contro il conformismo uditivo. Detestavamo le litanie agrodolci strombazzate dalle radio commerciali, ancora ignare dei cambiamenti che le avrebbero rese obsolete.
Il verbo era rinchiuso in quei quattro quarti, tanto odiati dalla critica quanto amati dal basso ventre, la rivoluzione che avrebbe ridimensionato il potere delle accademie e ucciso gli elefanti.
Volevamo celebrare il momento in cui tutto questo sarebbe stato sputato in faccia a chi fosse ancora rannicchiato nella nostalgica utopia floreale degli anni sessanta, per cercare di scuoterlo e fargli capire che non ci saremmo mai fermati.
Serviva un’occasione, un posto, una data. Volevamo annunciare una rivoluzione attesa, indifferibile, partendo da una pedana di quattro metri per quattro, col sudore nascosto tra le unghie e i pantaloni, naturalmente di pelle nera.

Tutto porta a un’umida serata del dicembre del millenovecenottantuno, il debutto ufficiale nel solito, immaginario CBGB’s di provincia.
La trattativa era durata almeno due settimane, ma ne sarebbe valsa la pena, quello era il posto giusto per iniziare. Poco più di una boa luccicante in mezzo al mare, orgogliosamente conficcata al primo piano di una rotonda sbreccata dal vento e dall’umidità. Rockhouse, un nome volgarmente altisonante per una sala decorata da divanetti color pesca e vetrate con vista sulla spiaggia.
Una piccola costa dei barbari affogata nei colori e negli odori di bagni fortunatamente non troppo in ordine. L’unico posto in cui potevi rimediare un finale di serata sufficientemente ambiguo per incubare diversità omologhe, variamente interessate a tutto quello che normalmente avrebbero evitato di mostrare.
La musica dal vivo era la colla, il resto era tutto quello che ci restava appiccicato. La band che avevamo messo su non soffriva l’inesperienza ma ne faceva tesoro, per opporre la merda ai guanti bianchi, i tre accordi tre alle suite di trenta minuti, l’urgenza elettrica alla polvere di stelle. Cercavamo le comete trascurando la loro scia, incapaci di capire quanto fosse importante regalarsi il buio per guadagnarsi il suo calore.
Era arrivato il momento di risolvere quei mesi di prove caotiche e deliranti, di onorare i ruoli che avevamo immaginato di poter reggere, fregandocene della precisione e della tecnica, interessati solo all’adrenalina. Non ci saremo nascosti dietro agli strumenti, anzi. Piuttosto li avremo maltrattati.

Comunque sia intorno alle dieci e mezza saremmo dovuti salire su qualche metro quadro di legname scadente per offrirci in pasto a animali con lunghe dita giallastre e lingue stropicciate, portatori sani di dentature quasi perfette. Gli oppiacei e l’amore richiedono solo tempo e pazienza per lasciarli lavorare, o la sfortuna di uscirne intatti.
“Picasso ha chiesto di aspettare ancora cinque, dieci minuti. La gente sta arrivando adesso”.
Si chiamava proprio così, Picasso. Il gestore del locale, un orso grosso e bizzarro. Era quello che avrebbe dovuto pagarci, lo stesso che poco prima aveva atterrato un ragazzo, probabilmente colpevole di aver investito il suo budget in qualche grammo di libanese invece che nel pagamento della consumazione. Picasso l’aveva beccato a riempirsi un bicchiere di birra direttamente dal banco, approfittando di un momento di distrazione del barman. Dopo il pestaggio era stato trascinato fuori ancora sanguinante, come un sacco sporco che si butta in spiaggia.
Probabilmente qualcuno avrebbe potuto approfittare dello stordimento per derubarlo, consuetudine non così rara per serate come queste.

Avevamo anche una specie di agente, uno stralunato ma capace mentore scampato alla serenata anarchica dei settanta, sopravvissuto a una stagione teneramente tenebrosa.
Cicatrici ideologiche ben visibili sul suo corpo, vistosamente ammaccato da una romantica frequentazione con Autonomia Operaia, terminata con un addio vivace e qualche manganellata.
Rifiutare la polpetta avvelenata dell’integrazione nella società borghese senza neanche provare l’ebbrezza di cambiarne i connotati aveva un suo prezzo, il dubbio rimaneva solo sull’entità del conto.
Si era occupato personalmente della trattativa ma, soprattutto, ci aveva dato fiducia, proponendoci di suonare nell’unico locale dove avremmo sperato di non essere solo e sempre semplici spettatori. Volevamo tornarci come una band, quella era la nostra ossessione.
Eccoci qui, nervosi e sudati come un panetto di burro dentro una ciminiera.
Il nostro mentore ritorna dopo l’ennesimo giro in sala. L’era del ciclostile ha ceduto il passo al pragmatismo delle relazioni. Ha un bicchiere in mano e il passo stentoreo. Se potesse suderebbe anche lui, anche se il riflesso delle pupille negli occhiali fa capire che è dentro altri pensieri.
” Ragazzi, è ora. Se va bene ne faremo altre, ne sono sicuro”.
Andiamo dritti verso la pedana, col respiro pesante. Si dice che Picasso abbia una pistola.
Confidiamo nell’incoscienza, non si sa mai.
Percepisco l’abbassarsi del volume della musica di sottofondo, mi avvicino alla pedana. È troppo piccola per contenere cinque persone, due chitarre, basso, batteria più uno in piedi messo di spalle, che sembra non avere ancora trovato una posizione.
Istantaneamente comprendo che Il mio spazio vitale è sullo stesso livello di chi dovrà subirmi, una malsana complicità ad altezza d’uomo.
Gli altri sono quasi pronti. Prendono ancora qualche secondo per cercare di limitare il ronzio degli ampli ed evitare di scivolare sulle chiazze che decorano la pedana. La storia di questo posto passa da qui, queste chiazze sono la sua eredità. Alzate ancora il volume, ce ne sarà bisogno.
Girarmi. Devo girarmi. Guardare il pubblico dritto negli occhi, rendere onore a tutto questo, smettere di stare di spalle davanti al microfono, con le palpebre semichiuse.
Uno dei due chitarristi è di fianco a me e si volta verso la batteria. Le bacchette staccano il tempo. Inizia il basso, quasi incollato alla cassa, un implacabile quattro quarti.
Arrivano le chitarre, taglienti e zanzarose, forse qualcuno ha riconosciuto il brano. È il momento di voltarsi, prendere il microfono, aprire gli occhi.
“I can’t seem to face up to the facts
I’m tense and nervous and I can’t relax
I can’t sleep ‘cause my bed’s on fire
Don’t touch me I’m a real live wire…”
Elettricità, fili scoperti, gambe fasciate di pelle scura, mani che non si fermano più. Li vedo in faccia, li tengo con me. Sono aggrappati a uno sguardo che oscilla, nervosamente.
“Psycho Killer
Qu’est-ce que c’est
Fa-fa-fa-fa-fa-fa-fa-fa-fa faaaaa…”
Seconda strofa, avvinghiato a una scia invisibile che porta dritto sino al microfono. Continuo a guardarli, riempiendomi gli occhi della loro espressione confusa, vagamente ebete.
Sembrano turisti che osservano squali dentro un acquario, o forse è il contrario. Mi aspetto uno sputazzo da un momento all’altro, so che qualcuno potrebbe sentirsi in diritto di lanciare la sua saliva sul cantante. Siamo al finale, strascicante e liberatorio, “Oooh Ooh Ooh Oooh Ahia iaiaiah uuuu…”, otto battute strumentali più la chiusura. Daangh daangh daangh daanngh… Stop. Il pezzo è finito.
Due secondi bagnati di silenzio, un silenzio muto e irreale. Un’eternità in un battito di ciglia.
Parte un applauso sommesso che diventa ingombrante e infine accogliente, croccante quanto le nostre orecchie.
Secondo brano, non possiamo più fermarci. E poi un terzo, un quarto, sino all’ultima canzone. Qualcuno si agita e balla, altri sono istupiditi ma serenamente partecipi, la maggior parte sorride e urla.
L’impressione generale è quella di un circo che abbia preso vita dopo la fuga degli animali feroci. Energia compressa che si libera all’improvviso, un segreto dilaniato dal rumore.
Il nostro mentore spunta improvvisamente dalla colonna che sta a qualche metro di fronte alla pedana. Ha il pollice sollevato, è visibilmente euforico. Picasso non deve avere lesinato sul compenso e sui drink. E lui avrà rilanciato.
“Di nuovo qui tra un mese, tra venti giorni in un altro locale. I gestori erano qui, ci parlavo poco fa. Gli siete piaciuti molto”.
Intuisco appena quello che mi sta dicendo, imbrigliato in un brindisi affollato di vapori psicotropi, completamente svuotato. L’apnea è durata poco più di un’ora, solo qualche fiato tra un brano e il successivo. Una scossa vertebrale di rabbia e passione, senza filtri né limiti.
Volevamo un’alternativa al ciondolare senza direzioni, volevamo qualcosa di diverso dalla sconfitta spirituale e politica dei nostri fratelli maggiori. Volevamo sbagliare da soli.
Avevamo atteso il nostro turno, ora dovevamo farci solo trovare pronti.
Una rivoluzione inizia quando cadono le difese, quando esci allo scoperto torturando la certezza di non poterti più tradire, quando rifiuti di essere un’imitazione di ciò che desideri.
Emozioni, alla fine si tratta solo di quello. Quello che dai è quello che prendi, tranne diffusissime eccezioni.

Esco sulla terrazza, inzuppato dal candore di quell’aria tagliente, tagliata, avvitata a zaffate di india e barbiturici, sospettosamente calda per una notte di dicembre. Ogni rotonda che si rispetti ha sempre un’area all’aperto e la Rockhouse non fa eccezione. Un istante di sana e profonda riflessione da una terrazza degna di vetrate meno affumicate.
Ho bisogno dell’aria salmastra di questa notte elettrica, per conquistarmi qualche istante di solitudine e una porzione di spiaggia da spettatore privilegiato, invisibile.
La luce del faro di servizio illumina teneramente la sabbia, ma non la indossa come si dovrebbe.
Qui tutto sembra un teatro stordito di cui la rotonda e la Rockhouse fanno parte, appoggiate sul mare per solleticarne la vanità.
Il ragazzo pestato da Picasso è lì, ancora sanguinante, vicino al bagnasciuga. Continua a lavarsi con l’acqua salata, gettandosela sul viso due, tre volte, poi si ferma. Solleva la testa come se alzasse lo sguardo verso la rotonda per incrociare il mio, ma realizzo che si tratta solo di un’impressione, una sensazione sottopelle.
Si mette in piedi e affonda le mani nelle tasche dei pantaloni, frugandosi nervosamente. Riabbassa il capo e se ne va, mischiandosi con la notte.
Ha smesso di cercare qualcosa che non troverà più.