Perdutamente di Fosca Navarra: la poesia come eco della vita

L’avverbio, secondo l’etimologia, è la parte invariabile del discorso che determina il significato del verbo. In realtà il sintagma irriducibile è un “modificatore semantico” tout court, poiché trasforma o indirizza il tempo, il modo, l’azione di qualsiasi parte della lingua a cui è accoppiato. Crea echi, dilata, conduce altrove.
In Perdutamente di Fosca Navarra, per Edizioni Ensemble, cinque avverbi (Mitologicamente, Amaramente, Follemente, Sessualmente, Amorevolmente), a cui si aggiunge un sesto che dà il titolo alla raccolta, scandiscono le sezioni poetiche come una partitura musicale. Al centro della silloge c’è l’unico sostantivo (Intermezzo) che intitola una parte, la quale appare come una pausa, una cesura di levità, utile a riprendere fiato, a ristorarsi nella leggerezza prima del finale operistico, la “cabaletta” in termini lirici.
L’incipit della silloge, innervato di echi classici, contiene in nuce gli umori della poetica di Navarra: la malinconia, l’amore, il tempo, la fine. Attraverso la rivisitazione del mito, con sguardo contemporaneo, i frammenti di vita delle dolenti eroine assumono la forza paradigmatica dell’universalità. Fosca è Arianna che sconta la solitudine dell’abbandono, è Creusa che assiste alla caduta di Ilo, ovvero la fine del mondo nel nulla. La prima sezione del libro è una overture che dichiara parimenti anche il timbro dell’opera: la poesia di Fosca è musicale e tonale, di un’armonia malinconica.
Lo stile della poetessa è originale nel lessico, dove miscela toni “classici” a sostantivi estratti dalla contemporaneità; così come nell’uso dell’aggettivazione, recupera la lezione oraziana della callida iuncutura rielaborata attraverso il vocabolario coevo. L’andamento è piano, con improvvise folgorazioni finali, che ricordano il fulmen in clausula di classica memoria.
La narrazione avanza tra le scorie terrene, dove l’amore è sentimento tagliente ma anche progetto esistenziale (“capirti fosse al mondo/ l’unico scopo”) e lo slancio di una metafisica del reale, come nella magnifica Le preghiere inascoltate. L’ombra dei versi di Fosca Navarra è di natura meditativa, una costante tessitura di riflessione e autoriflessione sulla vita accompagna ineludibilmente la trama poetica; in Gioia, ad esempio, il titolo ossimorico rimanda ad una autunnale riflessione sul trascorrere del tempo e sulla caducità dell’esistere.
Anche quando recupera materiali biografici dalla sua giovane esistenza, l’autrice li trasfigura in una dimensione universale, che stupisce per la profondità del taglio e per lo spessore della prospettiva. Anche le cose compartecipano di questa tensione inclusiva, si fondono con l’occhio che le osserva in un unico viluppo dove soggetto e oggetto esistono aggrovigliati, insieme, fusi dentro a un brandello di tempo immobile eppure inesorabile:

Tutto è senile da tempo,
le case
son ossi di pollo spolpati
e alle magre impiccate finestre
si stagliano storie in pendenza.

Un brivido di annientamento scuote il vivente, la Natura non è immune al destino che riguarda tutto ciò che palpita:

Capita a volte che un mandorlo in fiore
si lasci scuoiare dal vento
e che pianga imprevisti brandelli;
nei fiori piombati
coi petali cerei scomposti
c’è tutta la morte.

La consapevolezza della condizione umana è il male di vivere, la coscienza della fragilità scivolosa dell’esistenza non è un sentimento di angoscia ma un atto lucido del pensiero, che deve farsi carico del suo stesso spietato coraggio. Attraversare la vita è un sussulto di meraviglia e di inquietudine, di attesa e di incertezza (“di chi nei suoi giorni di sabbia / a trovato burrasca / e mai un tempo, / nemmeno il domani, / in cui stare.”). Tuttavia può esservi una possibilità, che risiede nel tempo, il quale non fagocita e consuma soltanto ma genera ipotesi, imprevisti, storie da farsi, non ancora marchiate dalla corruzione e dal negativo: una nascita, la vita stessa come rinnovamento perpetuo (“annusavo purezza, speranza”).
L’assedio del tempo, la sua intima natura annientatrice per esseri fatti di giorni, che non possono sottrarsi tuttavia al desiderio illimitato e spasmodico di vita, la cui seduzione è una condanna e una nostalgia (“la vita sa farsi volere / ed è questo il suo grande peccato”). La lirica di Fosca Navarra vibra di brama di intensità, unico antidoto all’irrefrenabile flusso dello scorrere, e struggimento per la consapevolezza della caduta, legata al trapassare ineluttabile degli affetti, delle storie, delle vicende umane.
Forse solo nella memoria vi è un argine, una possibilità di durata e di r-esistenza, un ancoraggio al franare delle ore e delle esperienze. Avere cura, custodire, proteggere ciò che è e ciò che è stato attraverso la ritenzione ostinata, la traccia umana e indelebile del ricordo, della fissazione dell’attimo una volta per tutte, che sarà finché esisteremo, con noi, in noi. L’unico scrigno in cui conservare, le unicità della propria vita e quindi della vita, che Fosca riconosce è la scrittura. Solo i segni del linguaggio possono opporsi alla dimenticanza, al tempo trapassato, alla consunzione del già stato. Il varco che la voce poetante ha trovato è nella memoria delle parole, nella loro ipotesi di testimonianza e di conservazione, che sola redime il nulla.
Per Navarra vivere è scrivere, poiché scrivere è non morire.