Profumo di cardamomo

Aziz ha cenato, ora sta parlando con mamma. Arriva puntuale alle otto, tutte le sere, quando torna dal lavoro. Mamma ci raccomanda di tenergli la cena al caldo, di non dimenticare, e di evitare la carne di maiale proibita dalla sua religione.
Non beve alcolici, non fuma, non l’ho mai visto pregare, ma osserva il roja, il rito massacrante del digiuno previsto nel Ramadan. Veste all’occidentale, ma per Eid al Fitr, la festa della fine del digiuno, indossa l’abito tradizionale. Credo che la religione rappresenti un legame forte con quella parte di sé che non vuole lasciare e pure una bussola che lo guida nella rotta da mantenere.
Ha molta nostalgia della famiglia, qui vive con altri uomini con cui divide appartamento e spese. Nel suo dēsh, il Bangladesh, viveva con genitori, fratelli e cognate, la moglie e la figlia, tutti insieme, si aiutavano a vicenda.
I figli maschi provvedono al mantenimento dei genitori e lui deve inviare ai suoi una certa somma al mese, come del resto fa suo fratello che vive a Milano. Si rammarica di non avere anche un figlio maschio, chiedendosi preoccupato cosa sarà della sua vecchiaia.
Sua moglie e la sua bambina sono bellissime, con gli occhi neri neri, lo sguardo intenso e un sorriso che abbaglia, ce le ha mostrate in una foto un po’ sgualcita che porta sempre con sé. La piccola Aysha ha quattro anni, veste di rosa, sua moglie Fahima è avvolta in un sari verde sopra una sottogonna che arriva alle caviglie e un choli dello stesso colore, i capelli nerissimi, raccolti in uno chignon, sono coperti dal pallu. Ha bracciali bianchi ai polsi, uno a destra e l’altro a sinistra: sono gli shakha, i gioielli di conchiglia intagliati pazientemente da maestri artigiani, il dono nuziale del marito per augurarle calma e serenità.
Aziz fatica più di dodici ore al giorno per mandare i soldi alla sua famiglia, tiene per sé il minimo indispensabile, vuole che sua figlia vada a scuola. Le vorrebbe qui, ma i soldi non bastano per le necessità e i sogni da realizzare.
Prima di andare via, va in quella che un tempo era la camera di noi ragazzi, si sdraia a pancia in giù sul letto e telefona a Fahima. Le parla sottovoce, un cinguettio di primavera che si dispiega in cluster consonantici e suoni alveolari e gutturali, aspirati e non aspirati nella sua dolce lingua a me sconosciuta.
Ha finito di mangiare e mamma è contenta.
Non viene per la cena Aziz, viene per lei, che chiama mamma Filomena e la scruta con gli occhi ansiosi nella speranza di un miglioramento, anche se abbiamo cercato di fargli capire che non ce ne saranno. L’aiuta a girarsi e la solleva sui cuscini, poi si raccontano in una lingua mista i fatti del giorno.
Mamma gli chiede se ha panni da lavare, che glieli fa mettere in lavatrice e subito si fa, lui torna tardi e come fa, Asis le dice no, un po’ vergognoso, che non c’è bisogno, li lava la domenica.
Le dice che ha un problema di documenti, deve rinnovare il permesso di soggiorno, deve preparare la documentazione e poi recarsi in questura, ma non sa dove andare.
Mamma ordina a mia sorella, dotata di senso pratico e abile nella guida, Vide che ha fà, accompagna Asis a Napoli, un comando perentorio da non rifiutare. E Giulia, con tutte le incombenze tra il suo lavoro in ufficio e gli appuntamenti dal medico e dagli specialisti per mamma, deve accompagnare Asis, non ci sono ma che tengano.
Perché come fa questo povero giovane, a chi tiene qua? Tiene a noi e noi lo dobbiamo aiutare.
Anche noi gli vogliamo bene, figuriamoci, ma bisogna cercare un buco, uno spazio di tempo possibile nel tutto e tanto da fare. Giulia la rassicura, prenderà un giorno di permesso.
Asis ha capito, è sollevato, le bacia la mano, che mamma ritira con pudore E che sono la regina Elisabetta che mi baci la mano? Questo baciamano me ne ricorda un altro, sempre di uno straniero approdato nella casa nostra porto di mare, e mi sale un nodo in gola.
Asis mormora qualcosa nella sua lingua, ma comprendo solo il grazie nella nostra. Deve ancora imparare, gli serve a lavoro. Per le parole da imparare si sono conosciuti.
Mamma lo ha incontrato un giorno mentre chiacchierava con le sue amiche sulle panchine che lei chiama nobilmente ’o salotto, dove da tempo non può più andare, ma lo scruta dalla finestra, vi abbiamo accostato il letto per guardare alla vita.
Aziz si fermava a chiacchierare con lei che non aveva ignorato la sua richiesta di aiuto per imparare la lingua nostra, lui chiedeva e lei diceva, e gli spiegava il come dire delle parole necessarie al quotidiano nella pazienza antica delle madri.
Domenica ha cucinato per noi gulab jamun, le bacche di rosa, un dolce della sua terra. Ha portato gli ingredienti necessari e preparato l’impasto quattro giorni fa, questo il tempo lungo della lievitazione. Arrotondava veloce le palline perfette nell’incavo della mano e quando anch’io ho provato ha scosso la testa e mi ha allontanato ridendo. Ho rinunciato. Dopo averle fritte, le ha immerse in uno sciroppo profumato, adagiate su un vassoio e spolverizzate con granella di mandorle.
A mamma son piaciute e pure a noi. Aziz rideva orgoglioso. In verità, Aziz ha sempre il sorriso nella bocca e negli occhi, un sorriso dolce dolce come le sue bacche di rosa.
La nostra casa oggi lo abbraccia con il cardamomo profumato del suo dēsh.