Sulle spalle dei giganti

Vedo più lontano perché sono
seduto sulle spalle di giganti
Isaac Newton

Quando entrò, nell’aula di Etologia cadde improvviso il silenzio. Tutti restammo quasi attoniti e catturati dall’immagine di quel professore alto non più di un metro e trenta. Gambe arcuate, bacino largo, testa sproporzionata rispetto al collo e al tronco. Evidentemente affetto da nanismo. Elegantemente vestito con il suo papillon nero e il cappello a larghe tese che gli copriva la spaziosissima fronte, prese posto davanti alla lavagna. Si tolse il cappello e fece un giro d’orizzonte su tutta l’aula con i suoi grandi occhi color nocciola. Un bel sorriso gli illuminò il viso mentre ci fissava. “Buongiorno”, disse con una voce squillante che non ci aspettavamo. Rispondemmo al suo buongiorno, ma le nostre menti si erano raccolte intorno all’osservazione silenziosa della persona che avevamo dinanzi.
Antichi stereotipi, così profondamente fissati nel nostro inconscio collettivo, ci forzavano a credere che una deformazione fisica debba essere sempre accompagnata da una qualche deformazione o menomazione psichica. Pur abituati a considerare ogni cosa attraverso la lente della razionalità e della conoscenza scientifica, non riuscivamo a conciliare l’astratta immagine del docente che dall’alto della sua competenza, intelligenza e conoscenza doveva insegnarci qualcosa di importante, con l’immagine concreta di una persona con così evidenti segni di nanismo. Nelle nostre giovani menti, il nanismo mentale era una conseguenza certa del nanismo fisico.
Gli argomenti della sua prima lezione non furono diversi da quelli che ci aspettavamo. Richiami di zoologia e di genetica. Ma il modo in cui gli argomenti venivano affrontati era del tutto peculiare, costellato di domande che il docente ci rivolgeva e che ci costringevano, oltre che all’attenzione, anche ad immergerci in riflessioni che congiungevano la scienza con la vita degli esseri viventi fisici che conoscevamo. Già da quella prima lezione trovai affascinante il suo modo di insegnare. Era certamente molto competente riguardo alle sue materie ma, ancor di più, mi colpiva la sua competenza, abilità e capacità nella didattica. Presi l’abitudine a fermarmi a parlare con lui dopo il termine delle lezioni. Diventammo, per così dire, quasi amici. Con il passare dei giorni il novero degli argomenti delle nostre conversazioni si ampliò, includendo oltre alle tematiche scientifiche, anche quelle personali e familiari. Mentre io parlavo spesso della mia famiglia, lui non ne parlava. Pensai che il suo nanismo fosse certamente causa del fatto che non avesse famiglia. Un giorno uscimmo insieme a prendere un caffè e pensai di sfruttare il momento per mostrare la mia empatia nei suoi confronti. Gli dissi, di punto in bianco: “È ovvio che la scienza e la didattica siano totalizzanti per la sua vita, probabilmente un po’ solitaria. Quando ha bisogno di fare due chiacchiere io per lei ci sono sempre.” Lui, per tutta risposta, aprì la giacca, estrasse il portafogli e mi mostrò le foto di due bei ragazzi e di una signora più o meno della sua età, evidentemente sua moglie. Rimasi basito dalla scoperta. Aveva una famiglia e dei figli. Sua moglie, a differenza di lui, non presentava evidenti segni di nanismo, così come i due ragazzi. Mi resi conto della mia stupidità e fui sopraffatto da un lampo di incontenibile vergogna che si leggeva chiaramente dal mio viso ritratto tra le spalle e dallo sguardo abbassato. Lui, al contrario, continuò tranquillamente il discorso. Mi disse che era già molto impegnato con la sua famiglia e con i loro molti amici, ma che certamente gli faceva piacere la mia disponibilità e ne avrebbe certamente approfittato. Capii, dal suo sguardo sornione, che il mio tentativo di “captatio benevolentiae” gli era chiaro. Ridacchiando sotto i baffi mi fece intendere, senza proferir parola, che non si era offeso e comprendeva il mio modo goffo, guidato da preconcetti, di pormi nei suoi confronti. Dopo avermi costretto assistendo alle sue lezioni, a cambiare il mio punto di vista sulla capacità di insegnare di un nano, mi aveva di nuovo costretto ad ampliare i miei orizzonti, a considerare le cose per quello che sono e le persone per quello che valgono veramente. Evidentemente sua moglie aveva avuto occhi migliori dei miei. Mi toccò la spalla, mi guardò per un attimo poi mi salutò e andandosene mi raccomandò di non mancare alla prossima lezione, quella conclusiva del corso. Intendeva affrontare un argomento che riteneva di grande importanza per la nostra comprensione. I quattro giorni che mi separavano da quella lezione passarono rapidamente come passano i giorni quando siamo in attesa di qualcosa che aspettiamo con ansia, con desiderio, con la sensazione che qualcosa di fondamentale ci aspetta.
Alle nove e trenta in punto entrò in aula. Ci guardò, sorrise, poi abbassò un poco la testa ed esordì con una domanda:
“Perché siete qui, impiegate il vostro tempo sgobbando sui libri, ascoltate le mie lezioni? Perché poi impiegherete il tempo della vostra vita lavorando, costituendo una famiglia, a volte cooperando e altre volte competendo con altri? Badate bene, non vi date una risposta banale, voglio che per un momento vi esaminiate e cerchiate di capire perché fate ciò che fate nella vostra vita di tutti i giorni, seguendo uno schema, una strada che nelle sue linee essenziali è la stessa per ciascuno di voi.”
Rimase in attesa di una risposta che tardava a venire. Tutti eravamo rimasti colpiti dalla domanda che non sembrava attinente alla materia da lui insegnata.
“Se qualcuno di voi ha letto IL GENE EGOISTA, un libro pubblicato qualche anno fa, probabilmente ha una risposta. In ogni caso vi consiglio di leggerlo.”
Il silenzio continuava a dominare l’aula. Ci pose la domanda in modo diverso:
“Quello che vi sto chiedendo è se avete idea di quale sia lo scopo della vita, della vita in generale ma anche della vostra vita come individui. Se non avete una risposta, ve la porgo io. Lo scopo della vita è la prosecuzione della vita. Vi chiedo di rifletterci, e scoprirete come guardando i comportamenti degli esseri viventi vi renderete conto che sono necessari al perseguimento di questo unico scopo. Il vostro studiare e lavorare, per esempio, è la strategia messa in atto dall’essere umano, da ciascuno, per la preparazione delle condizioni migliori per la prosecuzione della vita dei propri geni, del suo DNA.”
La lezione si concluse con le ultime raccomandazioni in vista dell’esame e, a differenza delle altre volte, uscimmo senza il solito brusio, tutti presi nelle nostre introspezioni. Quelle affermazioni semplici, che riducevano l’obiettivo dei nostri comportamenti verso un solo fine, impattavano sulle vite di ciascuno di noi. Qualcuno sembrava aver colto il significato della domanda, qualcun altro sembrava offeso dall’essere stato ridotto a un “riproduttore”, qualcuno, infine, si poneva domande astruse sull’intervento divino nella vita e nella storia dell’uomo.
Quel pomeriggio ero ancora preso nelle maglie di quella domanda così semplice, che prevedeva una risposta altrettanto semplice, ma alla quale qualcosa dentro di me si opponeva. Non volevo sentirmi un semplice “riproduttore”. Ma accadde qualcosa che non avrei mai immaginato e che forgiò in me una nuova concezione della vita.
Ero uscito con un mio amico studente nello stesso corso di Etologia. Ambedue eravamo rimasti sorpresi dalla domanda rivoltaci dal professore quella mattina, ci domandavamo cosa avesse a che fare con la materia che studiavamo, volta a comprendere i comportamenti animali. La psicologia, a nostro avviso, era la scienza che studiava i comportamenti umani. Dopo una breve passeggiata nella quale continuammo a discutere dell’argomento, decidemmo di sederci ad un bar all’aperto, frequentatissimo a quell’ora da un gran numero di persone, per lo più giovani e giovanissimi. C’erano tavoli più piccoli, a cui sedevano delle persone giovani e adulte, principalmente coppie di fidanzati o tre o quattro amici. C’erano poi tavoli più grandi affollati di nugoli di adolescenti. Annoiati di ripercorrere il significato della domanda del professore, parlavamo di argomenti diversi, osservando l’ambiente circostante e godendo della bella giornata di sole. Improvvisamente la mia mente provocò la disconnessione dalla chiacchierata con il mio amico. Si fissò sulle persone ai tavoli e impose alla mia attenzione la sensazione netta di percepire cosa si muovesse nelle menti consce ed inconsce, nelle emozioni e negli istinti di tutti quei ragazzi. Immaginai, anzi, vedevo, un reticolo di linee colorate che si muovevano dall’uno all’altro, portando con sé messaggi di attenzione, desiderio, amore, competizione, contrapposizione, tutti volti a trovare, conquistare, conservare, difendere la persona giusta, la migliore scelta necessaria per muovere la ruota della vita. Emozioni, ciascuna con un colore diverso, ben riconoscibile. Non c’era differenza tra maschi e femmine. Tutti avevano lo stesso scopo. Tutte le loro azioni, mettersi in evidenza o non mettersi in evidenza, parlare o stare in silenzio, rivolgersi all’uno o all’altro, fingere o essere trasparenti, essere intellettuali o grevi, prendere in giro o dare ragione, aveva il solo scopo di creare un ponte con la persona giusta e isolarla dalle attenzioni degli altri di sesso opposto. Ciascuno era mosso, nel profondo, dall’egoismo dei suoi geni, del suo DNA, che voleva solo conservare la vita del singolo individuo o conservarla trasmettendola in avanti, verso altri individui, rendendosi in qualche modo immortale. L’immagine del reticolo colorato durò per un po’, poi scomparve. Il mio amico mi guardava fisso. Mi chiese se stessi sognando. Risposi che non stavo sognando, ma che cominciavo a capire qualcosa che mi sembrava fondamentale. Il comportamento umano, gratta gratta, nel profondo era mosso dalla stessa identica motivazione, la vera ragione di tutto. Nei giorni successivi mi resi conto che la prospettiva che mi aveva regalato il nostro professore di etologia, mi avrebbe consentito di capire molto meglio i comportamenti di tutti gli esseri viventi, uomini e animali. Perché studiamo, lavoriamo, ci diamo da fare? Semplice, sono tutte azioni accessorie a sostegno dell’obiettivo di generare vita stabile, che possa veder crescere nuove persone nel migliore ambiente possibile in modo tale da continuare la trasmissione della vita. E in questo siamo anche molto selettivi. Vogliamo che continuino proprio i nostri geni, proprio i nostri, e li proteggiamo dagli altri, i quali anche loro vogliono la prosecuzione dei loro geni. Ecco da cosa scaturiscono le contrapposizioni e le guerre, dalla necessità di mettere a disposizione le risorse necessarie. Forse se tutti fossimo veramente coscienti dell’obiettivo vero della vita, capiremmo fino in fondo il significato di ciò che dice qualche mente illuminata: “cooperare è più efficiente ed efficace che competere”.
Un’altra cosa mi fu chiara. Ci sono delle verità evidenti, davanti ai nostri occhi ogni giorno, che restano sospese nell’ombra di un qualche limbo psichico semicosciente fino a che qualcosa ce le mostra con tutta la loro forza e necessità, rendendocene pienamente coscienti. Queste prese di coscienza cambiano il nostro modo di vedere il mondo, in qualche modo rendendoci essere umani migliori, più comprensivi, meno fragili di fronte ai problemi di ogni giorno.
Mi preparai per l’esame con molta attenzione, ripensando spesso a tutto ciò che era successo. Mi venne in mente una famosa frase di Newton: “Vedo più lontano perché sono seduto sulle spalle di giganti”. Voleva dire che le sue conquiste scientifiche erano state possibili grazie alle personalità geniali che lo avevano preceduto, Galileo, Copernico, Keplero. Nella mia mente sorrisi, pensando alla contrapposizione ideale tra l’immagine del nostro professore, affetto da nanismo, e la gigantesca immagine morale e scientifica che avevo di lui. Riuscivo a capire qualcosa di fondamentale, ma solo perché mi aveva consentito di guardare le cose dall’alto delle sue spalle.
Il giorno dell’esame mi presentai molto emozionato, sempre con la mente rivolta alle nuove prospettive che il professore mi aveva aperto. Risposi a tutte le domande che, da programma, mi dovevano essere rivolte, ma non mancai di raccontare la mia esperienza di qualche giorno prima al bar all’aperto. Il professore, seduto su uno sgabello a vite che gli consentiva di stare all’altezza dello studente esaminato, mi guardò sorridendo. Capii che aveva colto la mia presa di coscienza. Prima di salutarlo gli consegnai un biglietto, su cui avevo scritto: “Grazie professore. Mi ha dato l’opportunità di osservare la vita dall’alto delle sue spalle di gigante della conoscenza.” Lo aprì, lo lesse, lo richiuse. Mi guardò con uno sguardo affettuoso. Ci stringemmo la mano.
Rimanemmo amici, anche dopo che per motivi di lavoro, ormai laureato, mi trasferii in un’altra città. Ci scrivevamo spesso, fino al giorno in cui seppi della sua morte. Di lui conserverò sempre il modo di osservare la vita e di insegnare, ma più di tutto, l’immagine di un gigante.