Alla deriva del sogno

«Arturo, su, puoi svegliarti.»
Così era iniziato il sonno della mia età giovane e inquieta. Quelle parole avevano sortito l’effetto opposto, mi ero intorpidito: sì, è vero, ero stato io a chiudere gli occhi, per non guardarla mentre evaporava dal mio orizzonte. Da quel momento in poi, tutto resta avvolto in una bolla miope. Mi ero convinto che particelle di acqua marina si fossero appoggiate sul mio cristallino, e fossero poi rimaste incastrate, o incrostate per via del sale. Mi sono convinto, poi, che il mio occhio preparava la sua difesa per ciò che avrebbe visto.
Ognuno degli eroi che avevo sognato di essere mi aveva mentito, e ora lo so: tutto era stato favola e illusione. I condottieri, la guerra, le battaglie, tutto aveva ragione di esistere solo in pagine ingiallite che ricordo a malapena, e che desidero seppellire insieme ad una stagione ormai remota.
Ma c’è un offuscamento che perdura in me, sebbene in altre forme, non più mitiche: l’isola, lontana come un eden; la città in cui muovo ora i miei passi tra macerie e vocii che mi inseguono, altrettanto fumosa, immersa in una nube di sonno e polvere.
Silvestro mi ha lasciato quasi subito, ne sono quasi sollevato. Adesso anche lui vive nel mio sogno, aiutante della fiaba che ha svolto il suo compito: da bambino, allevandomi come una nutrice, insegnandomi a leggere; da ragazzo, tagliando il cordone che mi legava all’isola. Incarnazione dei miei riti di passaggio.
Nulla qui è stato come l’avevo immaginato, o meglio, come l’avevo letto nei romanzi. E Silvestro aveva avuto ragione, svelandomi, ricordo ancora le sue parole, il «macchinario di macelleria, formicaio di sfaceli» a cui andavo incontro. È proprio all’immagine di un formicaio che ho spesso pensato vagando per le strade, quando il coprifuoco li rintana tutti e l’oscuramento li costringe a brancolare come piccoli animali sotterranei, respirando la cera e la sua fiammella fioca. La stessa immagine quando guardo i palazzi sventrati dalle bombe: sono voragini nere di bruciato, dove ancora scorgo la gamba di un tavolo, le porte che penzolano dai cardini, forse, ogni volta ci spero, da lì qualcuno è riuscito a mettersi in salvo. Ancora, quel giorno in cui si distribuì la farina: una nube bianca, lo stesso formicaio di madri accorse, pronte a caricare le gonne lise, a portare il doppio del proprio peso esile fino alla tana. Se mi soffermo a lungo tante, troppe scene così mi zampillano in mente e anche se cerco di metterle a fuoco, sono tutte confuse allo stesso modo, immerse in una melassa densa di allucinazione. In nessuna vedo eroi sfolgoranti e valorosi, solo una massa informe, lo stesso sbuffo di fumo che mi avvolse, grigio e smarrito, quando un 16 di ottobre un convoglio ferroviario si allontanò davanti ai miei occhi, emettendo lamenti remoti, che sembravano provenire da altre dimensioni.
Mentre scrivo, ora, una piccola oasi mi accoglie, una radura vicina al fiume, ancora adesso sono tentato di trasformarmi in un animale d’acqua, per scherzare tra i flutti. Qui non sembra seguirmi quella nuvola che altrove mi avvolge ogni secondo. Qui recupero la mia lucidità, la prima volta mi si è manifestata come un baleno: una pioggia improvvisa, finissima, silenziosa mi sorprese tra le foglie mentre il cielo mi guardava, terso, come se l’acqua che cadeva non gli appartenesse. Ogni cosa aveva il proprio colore. Poi, quello sì che era stato da romanzo, un arcobaleno iniziò a fluttuare tra le gocce e i raggi del sole. Mi sentivo preso in giro dagli elementi, e sorridevo di questo scherzoso scenario che mi portava via dalla nube di realtà in cui fino ad allora ero rimasto addormentato. La mia verità sembrava risvegliarsi, e i miei sensi insieme alla brezza, al fiume, agli uccelli che mi solleticavano coi loro canti.
Mentre scrivo mi accorgo che non sono solo, quest’isola non è tutta per me. Scorgo un grosso cane che fa da scorta a un bambino. Sembra anche lui di un’altra dimensione o di un racconto, canticchia con gli uccelli e sembra capirli, preso dai loro giochi; poi, man mano che si avvicina, il suo corpicino smunto e sporco lo riporta sulla terra, poco lontano da questa radura, nella guerra.
Lui si avvicina e io sono combattuto, non so se raccontargli una delle storie di eroi che conosco, dopotutto a me forse non hanno giovato. Lo vedo proseguire dritto verso di me, che mette in fila parole come stelle che tiene in pugno: credo che ascolterò una sua poesia.

Omaggio a Elsa Morante, Arturo, Useppe.