Don Milani. Cronistoria personale di una scoperta 

Il 26 giugno 1967, nella Firenze in cui era nato il 27 maggio 1923, moriva don Lorenzo Milani. Sono passati giusto cento anni dalla nascita. Ma in quel 1967 usciva, per la Libreria Editrice Fiorentina, LEF, a firma Scuola di Barbiana, come libro collettivo dei suoi allievi del borgo del Mugello, il titolo più celebre a lui legato, la Lettera a una professoressa che tanto scalpore doveva destare nella pedagogia e nella società italiana. Ma a meno di dieci anni dalla morte, e dall’uscita del libro, io e il compagno di tante battaglie di allora, Pino Ionta (ora psichiatra), nel 1976 dedicammo una delle prime puntate del nostro programma radiofonico “Mondocultura” a quello che ora è un classico dell’antipedagogia. Come ero arrivato a quel libro, ora non saprei dire. Forse dovevo aver letto la recensione di una ristampa del tempo – e ora infatti il catalogo OPAC SBN mi fa sapere di una riedizione del 1975 (non ho più quella mia copia, per controllare: prestata, non mi è più tornata). Dev’essere molto probabile. Ed ero corso ad acquistare il libro. E così, quando dovevamo progettare le puntate del nostro programma in una delle prime radio private (radio libere come si diceva allora), noi, appunto ancora studenti dell’ultimo anno di un liceo classico di provincia – studenti che pensavano a una scuola diversa – decidemmo di parlarne, per dedicare la puntata successiva a un altro testo dell’antipedagogia, il Descolarizzare la società che Ivan Illich aveva pubblicato nel 1971 e che probabilmente da poco doveva essere stato tradotto in italiano.
Ma con ordine. Il nome di don Milani m’era già noto. I miei genitori, allora, compravano sempre “Famiglia Cristiana”. In un numero avevano recensito le Lettere alla mamma, uscite nel 1973 per Mondadori (solo ora ho comprato quella prima edizione). A ben pensarci, già lì dovevo aver trovato riferimenti alla Lettera a una professoressa. La figura di don Milani mi aveva quindi già colpito da tempo: nel 1973 completavo la terza media e iniziavo il primo anno di liceo. A meno che sul settimanale cattolico non mi fosse capitato di leggere invece un articolo sulle Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana che risalgono al 1970. Ma propendo per l’ipotesi del libro del 1973. Dunque, lettura dell’articolo e poi della Lettera alla professoressa. Quindi, puntata alla radio. Tutto nel giro di pochi anni, anni che, a quella età, sembravano lunghissimi, e che ora il tempo trascorso schiaccia e nello stesso tempo eleva nella dimensione mitica della scoperta.
Eccoci di nuovo qui. Se volessi, potrei andare a ripescare il fascicolo relativo a quelle trasmissioni radiofoniche, con tanto di data. Ma non interesserebbe a nessuno, se non a me e a Pino. Ci colpiva il modo diverso di far lezione, con il coinvolgimento diretto degli allievi, nonostante il rigore richiesto ai poveri ragazzi di montagna, esclusi dalla scuola ufficiale: il libro parte dalla bocciatura di Gianni, che viene confrontato con Pierino, figlio di ricchi e quindi – Pierino – avvantaggiato in tutto, anche nella scuola. La scuola parla la lingua dei borghesi, e Pierino sa già parlare la lingua che la scuola vuole da lui. Una lingua che Gianni, e i suoi compagni, invece non conoscono. Quella di don Milani era una rivoluzione pacifica, dal basso, incentrata su istruzione e cultura. “Più parole più idee” si legge nella Lettera. Come questa prospettiva doveva affascinare degli studenti – noi – che allora, a metà anni Settanta, si avvicinavano a una politica che volevano umanistica, come quella del giovane Marx. Una politica che, anche a chi si allontanava dalla chiesa ufficiale – come me –, appariva autenticamente cristiana. C’erano i preti operai, c’era l’eco del Concilio Vaticano II. C’era un mondo che prometteva di cambiare – e che poi, è vero, è cambiato in tutt’altre direzioni, anche se per un po’ quelle concezioni, come quelle ispirate a don Milani, hanno contribuito a far restringere la forbice sociale, che si è poi drasticamente e drammaticamente di nuovo spalancata. Questo vibrava nelle nostre voci, facendo in diretta quella puntata. E quella successiva, dedicata a Illich. Ma dai responsabili della radio eravamo “sorvegliati speciali” già da don Milani: ed ecco che, mentre parliamo dell’abolizione della scuola ufficiale in nome della scuola diffusa nella società (la concezione di Illich), ci chiudono il microfono, fanno partire un disco, e ci convocano fuori dal piccolo studio (l’emittente era in una vecchia casa della frazione collinare, e uno dei responsabili era venuto su apposta per noi). Non potevamo continuare così, stavamo attaccando l’allora partito di maggioranza, la DC. Ma quale DC, diciamo noi, Illich vive in Messico, benché austriaco. Vabbè, ribattono, attaccate il “sistema” (come si diceva allora), e quindi la DC. Potevamo continuare il programma, ma cambiare registro, e per il futuro portare il copione scritto per preventiva approvazione. Rientriamo nel piccolo studio, e l’angolo della poesia già preventivato si allarga, improvvisando a braccio, occupando metà puntata per il poeta Mario Luzi, allora ancora vivo, e che noi leggevamo per conto nostro, al di là dei programmi scolastici.

Ma torniamo a don Milani e alla mia personale “lunga fedeltà”. Agli inizi degli anni Duemila dovevo dedicare una lezione seminariale all’università di Salerno al suo pensiero pedagogico, e poi a quello di Pasolini, che su Milani si era espresso con ammirazione. E verso il 2010, anno più anno meno, dedicavo al sacerdote toscano un intervento all’interno di un progetto pomeridiano presso un liceo campano, con l’ausilio di un PowerPoint per comunicare alle nuove generazioni con nuovi strumenti ciò che io avevo amato attraverso i vecchi strumenti. E poi è nato un focus per il primo volume del manuale di scienze umane che ho scritto per la Zanichelli su “Linguaggio e classe sociale”, nel quale collegare le riflessioni di don Milani a quelle di Basil Bernstein su “codice ristretto” e “codice elaborato” e a quelle di William Labov sulla necessità di valorizzare le “parlate” dei ceti subalterni, anch’esse ricche di espressioni e non inferiori ad altre.
Ecco il mio don Lorenzo. Certo, oltre la Lettera a una professoressa, ho letto solo frammentariamente altre cose sue. Così non potevo farmi mancare il doppio Meridiano con Tutte le opere del priore di Barbiana quando uscì: sì, ci sono anche Le lettere alla mamma, delle quali potrò leggere altro, oltre i passi citati nel settimanale del 1973. Ma appunto, da qualche giorno ho quel volume d’annata nel quale alla madre il giovane novizio racconta le sue esperienze in seminario tra passione e ironia.