Gli stupidi e i furfanti di Salvatore Toscano: chiudere i conti con la morte

La Letteratura si aggira nello spazio dell’indeterminatezza o possiede uno statuto epistemologico alla pari di altri saperi?
Letteratura è espressione vasta, che include poesia, teatro, narrativa, a loro volta scomponibili in ulteriori sottogeneri. Una lirica di Saffo non è l’Edipo re di Sofocle, così come l’Amleto di Shakespeare non è l’Ulisse di Joyce; un’evidenza che pare distanziare più che accomunare. Eppure fino all’affermazione del romanzo, nel XIX secolo, quale genere borghese egemone, l’estetica letteraria aveva tramandato una precisa linearità: lirica ed epica per la scrittura, commedia e tragedia per la rappresentazione, con temi e forme abbastanza definiti. È il romanzo che si rivela un “luogo” aperto, senza confini precisi né canoni rigidi.
Fin dalla sua origine, questa “nuova forma” letteraria si manifesta duttile e onnicomprensiva, ponendo il suo canone nell’assenza di canoni definitivi. È con il romanzo che si attua l’implosione delle poetiche (Aristotele duxerat), la dottrina delle unità, il rigore della metrica. Anche in termini tematici l’universo romanzesco è un polpo che tutto afferra e fagocita: le astrusità di Ivanohe, gli inciampi di Renzo, le lettere di Werther, il diario di Pamela, la petulanza di Elizabeth. Nel suo procedere torrenziale il romanzo inoltre scardina i confini di genere, restando uguale a se stesso: noir, giallo, horror, fantascienza, fantasy, ecc. Tuttavia, esiste un filo rosso che cuce tanta dissomiglianza, che congiunge esperienze multiformi, riconnettendole anche all’origine? La tensione gnoseologica, l’indagine sulle domande primordiali circa la parabola dell’uomo e dei suoi singolari sussulti dentro al cammino oscuro del vivere e del morire sono il tessuto che nutre l’arte della scrittura.
Il tempo, la vita e la morte, il fato, la caducità, i sentimenti sono i temi costitutivi della letteratura, al di là delle sue specifiche forme, i fili che tessono la trama dall’inizio e che si declinano in modo poliedrico solo per tentare di aprire il medesimo varco.
Il romanzo d’esordio di Salvatore Toscano, Gli stupidi e i furfanti (Baldini e Castoldi, 2024), si innesta in questa tradizione e dentro a questi interrogativi.
La voce narrante che attraversa l’opera dichiara la volontà di realizzare un’impresa singolare: narrare gli ultimi giorni che la separano dal compimento del compleanno, momento in cui compirà gli stessi anni del padre quando è defunto. Figlio e padre saranno coetanei dentro a un asse temporale che frantuma il tempo storico e compie quello della memoria.
È un cammino di formazione e di affrancamento: un dolente percorso di liberazione e di catarsi. Recuperare la morte e darle un senso, riscattarla dal potere annichilente e redimerla in un inizio. La voce intraprenderà un corpo a corpo con il passato che, come un vortice nero, tutto rischia di risucchiare e inghiottire affinché possa liberare la sua stessa vita e affidarla a un presente ricomposto.
La morte qui è la fine esistenziale del padre del protagonista ma è anche l’ombra densa e minacciosa di ciò che è stato senza possibilità di essere mutato. La lotta della voce è uno scontro angoscioso con la definitività irredimibile. Crescere significa anche accettare l’inaudito e perdonarsi per la propria inanità e per il proprio inerme sgomento.
La voce, di cui non si saprà molto fisicamente a parte che pratica la corsa e si allena, ripercorrerà frantumi di ricordi, ritornerà a figure familiari e amicali fondamentali, transiterà dentro a riflessioni e pensieri ciclici per ricomporre un puzzle lacerato in una unità compiuta, per restituire la luce a ciò che era sepolto sotto alla nebbia del rimpianto, per fissare una volta e per tutte il passato e riappropriarsene contro la corruzione definitiva della morte.
Intorno a questo viaggio nel tempo interiore, aleggiano le due figure cardine, i due poli esistenziali della voce: il padre e lei. Entrambe sfuocate e contundenti, ecoplasmatiche e vive, oniriche e presenti. Come due poli metafisici muovono l’oscillazione della vita del protagonista: il passato e la fine l’uno, il futuro e l’inizio l’altra. Un debito da saldare e una possibilità a cui tendere. La partita esistenziale del personaggio si gioca su due ipotesi altrettanto potenti: la paralisi del dolore e il desiderio di esistere. Su questa scelta si decide il destino della voce e di ognuno.
In questo romanzo di formazione senza trama, il protagonista comprende la propria identità a partire da ciò che ha amato e che lo ha reso se stesso, ciò che è suo e di nessun altro, ciò che ha scelto e voluto: la letteratura, la musica, il cinema. La voce narrante introduce i libri, le melodie e le immagini dentro allo svolgersi degli eventi, le arti si sono impastate con il vissuto e sono divenute esse stesse materia viva, stratificazioni della coscienza, prospettive sul mondo, angolature sentimentali. La conquista dell’identità è passata attraverso esperienze estetiche che, di fatto, sono state accadimenti esistenziali: sui protagonisti dei film, sulle frasi memorabili dei libri, sulle note dei musicisti si sono incrostate le emozioni e le tracce della memoria. I segnali dell’arte sono state le boe per non annegare, per ritrovare la rotta dentro al naufragio, per decodificare le ferite e le direzioni.
La forza del libro di Toscano sta nell’autenticità. Questo esordio era un libro necessario, per l’autore, che doveva chiudere i conti con la morte, e per i lettori, che sono chiamati a un impegno e a un confronto, poiché qui non c’è consolazione o distrazione ma l’inevitabile resa a domande universali a cui nessuno può sottrarsi. Il tono della narrazione tuttavia non è greve o angoscioso ma declina una notevole varietà di timbri, quello lirico, quello prosaico e, non da ultimo, quello lieve.
Lo stile di Toscano è terso, complementare e funzionale alla sincerità dell’ispirazione, a tratti piano e immediato, nonostante celi una cura maniacale, un lavoro estenuante con le parole, a tratti contro le parole. Il labor limae dell’autore è mosso dal rispetto sacrale del linguaggio che non è mai valore d’uso ma sempre viatico verso altre realtà. La cura formale, che non è ridondanza né estetismo, conduce a una prosa limpida, apparentemente semplice, che in realtà condensa la lezione di grandi maestri (Moresco su tutti) e lo studio devoto della grande letteratura.
Il romanzo di Toscano si innesta sulla tradizione alta della letteratura nel suo impeto di affrontare interrogativi originari e decisivi. Gli stupidi e i furfanti è una linea tracciata sotto ai bilanci dell’esistenza dell’autore ma è anche un’equazione per esorcizzare il vuoto e la morte e ancorare la vita al possibile, allo spazio aperto.
Tanta letteratura contemporanea ricama sul niente, Toscano scrive del nulla, come la letteratura ha sempre fatto. Alla ricerca di un varco.