Il poetico è politico

Riecheggia ormai da molto lontano, uno spazio-tempo che sa di anni-luce, una voce come quella di Jean-Paul Sartre, l’autore di Che cos’è la letteratura (1947), che propugnava una scrittura impegnata, engagé; e lontana sembra la stessa parola francese usata abitualmente anche in italiano per esprimere il concetto. L’engagement è cosa di altre ere geologiche e letterarie, un residuo del passato che sa di polvere. Sartre, a dire la verità, riteneva che l’impegno politico riguardasse soprattutto la narrativa, e non tanto la poesia: la poesia da un lato è maggiormente legata alla soggettività dell’autore (soprattutto la poesia lirica dove trionfa l’io, ovviamente) e dall’altro è più attenta alla parola, al lavoro su di essa: quella che con Roman Jakobson possiamo chiamare “funzione poetica” e che si concentra sul messaggio e sulle sue modalità compositive.
Ma non si è perso solo l’impegno in senso strettamente politico, la stessa funzione poetica jakobsoniana appare depotenziata: è spesso infatti venuto meno anche l’impegno verso la cura del testo, sulla sua “tessitura”. Se consideriamo molta parte della narrativa di oggi, le pressioni dell’editing delle case editrici verso un abbassamento della scrittura (e un’omologazione dei contenuti tra romanzo storico, poliziesco, noir e quant’altro), constatiamo la progressiva deriva verso un degré zéro che nulla ha a che vedere con quello analizzato da Roland Barthes nel suo libro del 1953. L’industria letteraria della quale già parlavano (e sparlavano) Horkheimer e Adorno ne La dialettica dell’illuminismo del 1947, è sempre più industria e meno letteratura: lasciando da parte il complessivo contesto ideologico dei francofortesi, secondo il quale la trasformazione in industria delle cultura serviva sovrastrutturalmente a legittimare il potere costituito, va qui sottolineato come di fronte all’esigenza capitalistica del mercato di massa le opere vengano trasformate in merci con la sola illusione che si tratti ancora di arte. Così, per la creazione artistica si adottano le forme produttive dell’industria che sforna prodotti in serie. Certo, l’editoria fa il suo lavoro di industria e deve far quadrare i conti, e non possiamo addossare a essa tutte le responsabilità. E senz’altro esiste anche una piccola e media editoria di qualità. Ma senza dubbio si registra un certo trend.
Fino a qualche tempo fa si aveva l’impressione che l’abbassamento del livello letterario della narrativa riguardasse soprattutto certa “produzione” nostrana, ma ormai anche da oltre confine arrivano spesso romanzi poco interessanti. Ho scritto: romanzi. E il fatto che il nobilissimo genere del racconto trovi sempre meno “mercato” è un segno del gioco al ribasso del presente. Talvolta, anche libri pur scritti bene sembrano pigiare sul pedale della sordina. Vero, non sempre è così e ci sono per fortuna libri che vale la pena di leggere: ma non azzardiamo elenchi di “buoni” e “cattivi” come qualcuno pure ha fatto suscitando un vespaio di polemiche. E chi in qualche modo critica la produzione letteraria corrente (il sottoscritto in questo caso) dovrebbe dimostrare di essere in grado di sottrarsi alla deriva che denuncia. Ma c’è questa “deriva”?
Vale la pena riportare l’autorevole parere del filologo e scrittore Gualberto Alvino rubato – secondo l’ésprit du temps – dai social (sul suo profilo Facebook, in data 19 settembre 2021):

“CHI LE COMPRERÀ?
Approssimazione sintattica, lessicale, nullità del pensiero, mimesi del parlato, non per scelta (sarebbe magnifico): per pura inettitudine.
Non hanno misericordia. Sono convinti di poter scrivere qualunque cosa.
Quando capiranno che senza lavoro sulla lingua è il deserto? che la parola va scelta pesata lucidata fonema per fonema?
Ogni ora inchiostrano tonnellate di carta, racconti narcotici, romanzi fiume, e sanno fare a stento la propria firma.
Migliaia di copie: chi le comprerà?”.

Alvino si chiede “chi le comprerà” queste opere. Il fatto è che, come dicevo prima, è talvolta l’editing di certe case editrici – delle maggiori che si propongono l’obiettivo di andare incontro al presunto gusto medio-basso dei lettori – a imporre questo livellamento in vista proprio del mercato che viene ulteriormente drogato. Pare che la Bompiani a Umberto Eco chiedesse di eliminare le digressioni storico-filosofiche nel suo Il nome della rosa e di lasciare solo il plot “giallo”, temendo una reazione negativa del pubblico: e fu invece proprio quella contestualizzazione “colta” a fare la fortuna anche internazionale del romanzo (ma erano già altri anni). In effetti, nel 1981 (l’anno successivo all’uscita del romanzo di Eco), Laura Mancinelli pubblicava con Einaudi I dodici abati di Challant, romanzo molto più scarno la cui trama assomiglia incredibilmente a quella del libro di Eco, ma senza l’impianto complesso del racconto dello scrittore piemontese.
In altro ambito, pur sempre quello dell’industria culturale e dello “svago”, anche l’avvento delle televisioni private ha determinato un fenomeno negativo: chi produce televisione abbassa il livello di ciò che propone andando incontro al pubblico, e il pubblico pavlovianamente viene condizionato ad abbassare le proprie richieste, e così via. In pagine non facili, è stato l’antropologo anglo-caraibico Stuart Hall (un gramsciano d’oltre confine) ad analizzare i meccanismi della produzione televisiva in Enconding and decoding in the television discours (1973 e poi 1980): lo sforzo di chi fa televisione è quello di produrre un paradigma narrativo che lo spettatore possa riconoscere facilmente.
Tornando alla letteratura, a creare il cosiddetto “minimalismo” è stato Raymond Carver, maestro del genere (se non risaliamo fino alle “miniature” di Hemingway) o il suo editor, Gordon Lish, che ha imposto allo scrittore statunitense tagli radicali ai racconti della raccolta che in italiano conosciamo con il titolo Di cosa parliamo quando parliamo d’amore uscita negli Usa nel 1981, tanto da inventare il “genere”?
Allora una funzione politica – non nella specifica accezione di engagement sartriano – potrebbe essere svolta dalla poesia, notoriamente meno agganciata al mercato, fatta esclusione per alcuni poeti che riescono a riempire le piazze anche in tempi di pandemia. E proprio per quell’aspetto – il lavoro sulla parola – che la faceva sartrianamente uscire dall’orizzonte dell’impegno. La poesia svolge – o dovrebbe svolgere – naturaliter un ruolo oppositivo rispetto alla standardizzazione e banalizzazione del linguaggio letterario, e della lingua tout court, una zona franca rispetto al mercato delle parole. Poesia dunque “politica” per essenza, al di là della poesia civica stricto sensu, proprio per il suo essere altro rispetto alla narrativa di consumo, ma anche altro rispetto all’uso della lingua quotidiana, benché con essa possa stringere rapporti fecondi in un ampliamento del registro linguistico. La poesia, sottraendosi spesso all’immediata comprensione, suscita, per dirla con Paul Valery, uno scarto e uno scatto che trascende il dato immediato della comunicazione per sospingere verso un livello più alto di visione della realtà. Ma è sempre così, anche in questo caso, nella pratica corrente? Per trovare questa funzione dovremmo spesso, molto spesso, saltare il mainstream delle poesie da social nelle quali la ricerca del like – magra compensazione della esiguità o nullità delle vendite – esautora (frequentemente ma non sempre) il serio e giocoso lavoro sulla parola. Ma in questa valenza “politica” della poesia nell’era digitale dobbiamo sperare, almeno per giustificare il titolo dato a questo pezzo. E forse, in poesia, in narrativa, c’è ancora chi ripaga le aspettative.