l'epoca sintetica

L’epoca sintetica

Lo scambio equivalente è una legge alchemica, vitale. Allo scambio non ci si può sottrarre, ogni conquista comporta una perdita, ogni strada percorsa una parallela dimenticata. Anche ciò che non ha prezzo, ha sempre un costo. Quella che potrebbe sembrare una legge capitalista che incombe su di noi, condannati alla pena capitale, trascende in realtà ogni sistema politico-ideologico e si configura come una legge naturale, al pari della termodinamica. Tanti sono i costi pratici del nostro progresso, costi di cui hanno scritto grandi penne, come Aldous Huxley, e sui quali non mi voglio soffermare. No, su questa pagina io voglio solo dipingere la mia inquietudine.
«L’amore è fatto di grandi presenze e di grandi assenze», disse Tiziano Terzani. Il nostro non lo è. Il nostro tempo ci ha dannati all’onnipresenza, “donandoci” i mezzi per essere presenti in ogni dove. Depredati dell’assenza, ci accorgiamo che l’attesa e la nostalgia sono echi affievoliti. La fittizia presenza virtuale ci ha tolto molto e ci ha donato poco. Ed io sono un pessimo scrittore, perché scrivo di ciò che non so e di ciò che non potrò mai sapere. Perché ho amato ed amo, ma solo nel modo del nuovo secolo. Eppure, chi non ha mai avuto, può forse non sentire la mancanza? Chi non ha mai sentito, può forse dire di non avere nostalgia della musica?
Ancora, in un tempo di sintetismo forse anche una parte di noi è divenuta sintetica. Sintetiche sono le nostre emozioni, che forse sono solo un ambire angoscioso a ciò che ci sembra reale. Guardiamo la televisione, leggiamo libri e mimeticamente ci immedesimiamo, dicendo a noi stessi cosa dovrebbero essere le nostre emozioni, studiandone il dosaggio e tendendo verso quello che ci sembra reale per rimanere artificiali. Chiuso in una stanza parlo a me stesso, e forse sono il più grande successo del test di Turing.
Il progresso è buono e meschino, e noi abbiamo azionato una sequenza di eventi inarrestabile. Se la storia prima aveva un ciclo, ora questo è stato spazzato via. Troppe cose sono cambiate, e mai più potremmo dirci uguali ai nostri antenati. Questo è un bene? Non so rispondere.
Penso ad un gioco, alle sue regole e al suo obiettivo. Penso alla nostra vita ed il suo senso. Penso ad un sentiero tracciato sulla sabbia dalle parole di Dio, dall’universo o da una sottile logica atomica. Penso che potremmo essere usciti da quei solchi, diretti verso mete sconosciute che hanno perduto tutto il fascino dell’esotico viaggio, ed ora hanno il gusto amaro dello smarrimento. Incerti, in un mondo incerto, guardiamo ai nostri antenati che hanno vissuto lontani dall’artificio, guardiamo gli animali che vivono seguendo la natura e siamo come lontani conoscenti, che si vedono, ma non si riconoscono.
In questo solco maleodorante, appestato dalla divina putrefazione, scaviamo, senza farci dei. O forse, se proprio possiamo dirci divini, dovremmo immaginarci come Fortuna, privata della vista e dell’orientamento, che, nascondendo le lacrime dietro ad una benda, confida solo nel suo attributo senza esserne padrona.
Qual è la soluzione? Non saprei dirlo. Sono un ragazzo del secondo millennio, sono peste e mai panacea.