L’indicibile

Oltre la parola vi è solo il divenire disarticolato, lo spazio disumano, il tempo immobile del Tutto. Fuori dall’umana dimensione linguistica c’è il Caos primigenio. È la parola che sottrae la vita umana alla condizione originaria dell’indeterminato. Il linguaggio traccia un confine. Una circonferenza dentro la quale vi è la comprensione, fuori dalla quale l’immane e l’alterità spaventosa. Com-prendere significa afferrare, possedere, de-finire, in termini e a dimensione d’uomo. Ciò che non è comprensibile è fuori dall’umano, è inafferrabile, inquietante. Pensare è delimitare, portare ordine e misura, ridurre l’incommensurabile a misurabile, circoscrivere, umanizzare. E pensare è combinare parole. Il pensiero si configura in atti linguistici. Pensare è ciò che si può dire, ciò che può assumere la forma del segno. Pensiamo in parole, usarle significa ragionare. Partorire pensieri è dare una sintassi all’immateriale. Il pensiero dice il mondo. Le parole ci raccontano la vita, la vita umana, la riproducono e la narrano. Dal risveglio al sonno, non smettiamo mai di parlarci. Il dialogo ininterrotto che avviene nella nostra coscienza è la vita per noi.
Il Nulla non accede alla dimensione della lingua. La morte non si fa dire. E non è possibile articolare in discorso ciò che la morte procura. I sentimenti e le emozioni fibrillano, i pensieri restano muti. E noi indifesi. Sguarniti. Smarriti. Il dolore. Resta il dolore. Afono, contundente, balbettante. La morte si muove ai bordi del dicibile, oltre questi. E tutto ciò che sta al di là delle parole. L’avvento della perdita, l’esperienza della separazione definitiva è sgomento che non possiede grammatica. È l’annullamento del possibile. Sovrasta e annienta la linea dell’ordine umano. Eppure si convive giornalmente con l’ineludibile consapevolezza della morte, con la percezione silenziosa della finitudine, con la certezza dell’inevitabile. La si allontana per autodifesa come si fa con un brutto sogno, non si può far altro. È necessario annegarla nella sua apparente inesistenza. Ci difendiamo con il creativo universo linguistico, che riprende, ogni volta e di nuovo, a raccontare il mondo e così a sterilizzare la consistenza angosciosa della morte. Tornano le nostre parole e si rimettono in cammino, a proiettare immagini, proponimenti, piccole incombenze, minime fattualità, a proteggere la vita nel presente, permettendole di svolgersi superando la paralisi pericolosa della definitività indicibile.
Quando ciclicamente l’ombra oscura emerge dall’ipotesi certa e diviene realtà concreta, quando essa si mostra brutalmente attraverso il rapimento di chi ci è caro, le difese cadono, i sacchi di sabbia con cui avevamo costruito la trincea sono travolti e restiamo inermi. Non possiamo più dire nulla. Non possiamo dire il nulla. Torniamo, come risvegliati, alla dimensione più autentica dell’umano. Singulti, occhi perduti, silenzi. La morte è uno scandalo per il pensiero. Essa ci chiama in causa completamente. La perdita dell’altro è anche rimando alla perdita di noi stessi. Il suo orrore è nel dolore che lascia e nell’impensabilità che impone.
Le nostre parole possono dire solo la vita.

Questo scritto è stato pubblicato per la prima volta su Kairos 3 | 2017.