Marta
È mercoledì pomeriggio. Barcollo su strade strette e desolate, dove il sole non penetra mai. Riconosco il suo portone blu e in ritardo, arrivo.
“È bellissima, grazie.” Mi dà le spalle mentre posiziona la pianta che le ho regalato sul davanzale della finestra. Alla luce del tramonto i suoi capelli sembrano indorarsi, una luce calda e onirica li avvolge.
“Te l’ho regalata perché tutti abbiamo bisogno di prenderci cura di qualcuno, per non sentirci soli.”
“Tu ti senti sola?”
“Sì.”
“Perché?”
“È una condizione immutabile, Marta. Lo siamo tutti, è la vera condizione umana, la solitudine.”
“Tu ti ritrai, ti sottrai solo per paura.”
“No, non è così, non è solo questo. Il limite non è fuori di me. Sono io, io mi sono d’ostacolo. Non riesco a oltrepassarmi, a dimenticarmi. L’autocoscienza è la solitudine.”
“Cosa cerchi, tu?”
“Qualcuno.”
“Sei circondata d’amore, ti amano tutti.”
“Non basta, non mi basta, prova a capirmi ti prego.”
“Cosa ti manca, allora?”
“Non lo so… Chi sappia riconoscermi, che vuol dire vedere oltre quello che appare, intendere al di là delle parole, prima delle parole, a prescindere dalla mia storia, dal mio passato, oltre le aspettative. Senza giudizio, senza cercare costantemente cause e ragioni, senza che io debba giustificarmi, spiegare, chiarire.”
“Mi dispiace.”
“Vorrei riposare, Marta, dimenticarmi, dimenticare il peso che grava sul mio corpo al mattino e lo costringe e lo trascina in balìa del mondo. Ed è nel mondo che più sono sola, quando provo a farmi spazio tra gli altri e nessuno mi vede.”
Marta non mi guarda, io ripenso alle parole che ho appena detto e mi sembrano assurdità. Se non fossi tanto affranta, stasera, mi direbbe, come sempre: “Sei incontentabile”, io andrei via sbattendo la porta, come fanno le adolescenti con i genitori, quando dicono che nessuno le capisce. Forse è così, nessuno mi capisce, o è come sostiene Marta, sono incontentabile e perciò presuntuosa, proterva. Non mi guarda, insegue le luci che si accendono una dopo l’altra dietro le finestre delle case, è ormai buio e dovrei tornare. Ha il viso contratto, nervoso, sta provando ad afferrare le mie parole come con le luci, le rincorre ma sono confuse. E si perde. Il caffè che mi aveva preparato è ancora sul tavolo, non l’ho bevuto; mi accorgo adesso di tremare. Ho pianto mentre parlavo, sento gli occhi umidi, un po’ bruciano. Anche stasera tornerò a casa ascoltando i miei passi e l’eco della voce di Marta chiedermi “Cosa cerchi, tu?”.