Pasolini non è un regista

O forse io sono finito. è passata la mia ora, le mie parole cadono nel vuoto.
Non pensi però, signor Totò, che io pianga per la fine di quello in cui credo:
sono convinto che qualcun altro verrà e prenderà la mia bandiera per portarla avanti. 

Su cosa sia stato Pasolini si discute ancora, sia in Italia che all’estero, e si è molto lontani dal trovare una risposta. Moravia lo definì un poeta, ma fu anche romanziere, saggista, giornalista, sceneggiatore. Pasolini, però, non fu mai un regista. L’intellettuale più controverso del secondo Novecento si accostò al cinema nei primi anni Sessanta mentre era alla ricerca di «una variante tecnica della letteratura». Pasolini si etichettò più volte come «principiante», nel senso più ampio del termine. Fu un regista principiante anche nella caparbietà, non arrendendosi al consiglio di cambiar strada, arrivato nondimeno che da Federico Fellini. Ma se dovessimo trovare le prove concrete di tale inesperienza, sarebbe difficile venirne a capo. Certamente la poca dimestichezza col mezzo non è un discrimine. Al contrario: nell’opera prima, Accattone, ci sono delle inquadrature superbe. Si perdona anche la scarsa esperienza degli attori e il doppiaggio amatoriale: sarebbe davvero difficile immaginare chi avrebbe potuto sostituire Franco Citti o Ninetto Davoli.
Ciò che realmente distingue Pasolini dai colleghi registi è la totale assenza di autorefenzialità all’interno dei suoi lavori. La finizione e l’inganno sono le vere muse del cinema: ogni regista che si rispetti sa bene che la realtà filmica diventa tale solo quando è addolcita (o abbruttita), mediata dal proprio ego e immaginario. L’inquadratura, scriveva André Bazin, è per sua natura coercitiva e ha la sola funzione di riprodurre una percezione di realtà. Quella del regista. È una lezione che De Sica e Rossellini conoscevano bene: ogni riproduzione della realtà ha bisogno della sua narrazione, che, nel loro caso, è quella naturalista.
Pasolini, pur realizzando film a tema, ovvero trasudanti morale da trasmettere e verità da diffondere, non impone mai il suo sguardo allo spettatore, non lo imbonisce con minacciose inquadrature dal basso, né con onnipotenti inquadrature dall’alto, né tantomeno con un montaggio eisensteiniano. 
Se però volessimo rintracciare la culpa maxima del Pasolini regista, dovremmo puntare alla totale assenza di un universo narrativo e stilistico. In altre parole: la vita entra nel cinema solo dopo aver passato il vaglio e la mediazione attenta del suo autore. PPP non ha mai posto alcun filtro fra sé e il suo cinema. Ogni opera filmica è l’esatto specchio delle convinzioni del suo creatore in quel momento storico: non c’è alcuna volontà di dissimulare e mistificare. Detta in maniera definitiva: Pasolini è riuscito a portare la sincerità sullo schermo.
Questa è la causa, unica e sola, non la violenza né le aberrazioni, del senso di straniamento che ogni spettatore prova davanti ai film pasoliniani: dal più allegro al più cupo. Il pubblico non vede la verità come vorrebbe che sia, ma come essa è veramente.
Sedersi in sala per vedere Accattone, Edipo Re, Salò, Mamma Roma significa percepire gli umori del tempo, nutrirsi di ottimismi e angosce, asfissiarsi di ossessioni collettive. Non è un caso che Accattone, Mamma Roma e Il Vangelo Secondo Matteo siano realizzati prima del Sessantotto e della sua furia parricida; non è un caso che Uccellacci e Uccellini sia stato fatto dopo la morte di Togliatti, custode dell’unità marxista; non è un caso che Teorema e Porcile siano stati realizzati a ridosso del Sessantotto, la rivoluzione borghese per eccellenza secondo Pasolini; non è assolutamente un caso che Salò o le 120 giornate di Sodoma sia stato girato dopo il golpe cileno, dopo l’Estadio Nacional, dopo le caserme di Pinochet, dopo i voli sull’oceano. Non sarebbe stato un caso se Porno-Teo-Kolossal, il film mai realizzato di PPP che prevedeva mastodontiche orge omosessuali, fosse uscito dopo il referendum sul divorzio del 1974. Istituto che Pasolini decisamente avversava, come i celebri Scritti Corsari testimoniano. Il suo cinema rispecchia il punto di vista di un uomo del 1922, comunista ed eretico, impotente nell’assistere al declino della società italiana. Semmai è questa l’unico habitus che influenza la realtà cinematografica pasoliniana: l’essere italiani, il vivere collettivamente drammi, ossessioni, angosce e paure. Forse è tale la ragione per cui, a quasi cinquant’anni di distanza dall’ultima opera, continuiamo a immedesimarsi e a compenetrarci nel sottoproletariato pasoliniano, come nella sua vorace borghesia. Siamo ancora noi, con abiti diversi. Ma Pasolini non c’è più a raccontarci.