Pasquale Stiso. Un poeta comunista tra Scotellaro e Sciascia
Un nome che andrebbe recuperato è quello del poeta “comunista”, del comunista “poeta” Pasquale Stiso. Nato ad Andretta, in Irpinia, nel 1923, è prematuramente scomparso nel 1968, dopo un’intensa esistenza all’insegna della politica e della letteratura. Avvocato di professione, è stato un dirigente del Pci e della Cgil nella sua terra, ha collaborato con alcune riviste irpine e con “Cinemasud”, testata fondata, sempre in Irpinia, da Camillo Marino e Pier Paolo Pasolini. Tanto per intenderci, a Marino s’ispira la figura dell’intellettuale impegnato e cinefilo, interpretato da Stefano Satta Flores, in C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Come Rocco Scotellaro, Stiso è giovane sindaco del suo paese, prima di diventare consigliere provinciale fino al 1964, eletto nella Lista della Rinascita, che riunisce comunisti, socialisti e indipendenti di sinistra. La delusione politica raggiunge però toni fortissimi in lui, con accenti accostabili alla presa di coscienza della vanità della lotta che ritroviamo nei versi di Rocco Scotellaro dopo la sconfitta elettorale del 18 aprile 1948. Alla stregua di un Rocco Scotellaro, alla cui scrittura è stilisticamente e contenutisticamente accostabile, Pasquale Stiso coniuga dunque impegno politico e tensione poetica, bruciando come il lucano in pochi anni la propria esistenza. E come il lucano è lacerato tra formazione culturale e politica europea e attaccamento alla propria terra. Possiamo leggere in Stiso: “Io ti amo / mia terra / mia povera terra / il mio cuore / è fatto del tuo cuore / e non v’è giorno / ch’io non pensi a te…”. E ancora: “Terra / arida terra invano / bagnata di sudore / brulla / indifferente / come una meretrice / i tuoi figli / non ti amano / e fuggono via da te / lontano / in cento altri paesi / in cerca del pane / che tu neghi”. “Matrigna” e “indifferente” qui non è, leopardianamente, tutta la natura, ma, in una concretizzazione geopolitica, la “Plaga del Formicoso / desolata / assetata”. È interessante incrociare i versi con il racconto Questa è una storia vera o forse no, pubblicato in “il Foro Irpino” nel 1962, dal quale deriva uno degli episodi del film La donnaccia diretto dallo stabiese Silvio Siano (un ultimo erede del neorealismo che andrebbe a sua volta riconsiderato), alla cui sceneggiatura Stiso ha collaborato con Camillo Marino. Uscito nel 1965, la pellicola ebbe scarso successo in Italia, anche per l’ostilità degli ambienti cattolici: maggiore l’attenzione da parte della critica in Francia (paese co-produttore), in Belgio e anche negli Stati Uniti. La storia ruota intorno a una bella irpina che ha fatto la “vita” fuori, per poi tornare con un foglio di via al proprio paesello irpino (il film è girato a Cairano): una sorta di “bocca di rosa” ante litteram rispetto alla canzone di Fabrizio De André, e interpretata dall’avvenente e biondissima attrice francese Dominique Boschero. In realtà, intorno a questo personaggio, non sempre presente sullo schermo, sono “cuciti” vari episodi, tra cui quello tratto dal racconto di Stiso. Cosa narra dunque Stiso? Si parla di Michele, un giovane bracciante irpino, che è riuscito a conquistare un piccolo podere al tempo dell’occupazione delle terre nel Mezzogiorno d’Italia, fenomeno giunto fin verso gli anni Cinquanta. Ma stanco di lavorare una terra ben poco fertile, decide di vendere tutto, lasciare la famiglia al paese e imbarcarsi per l’America. Senonché, la nave su cui è salito a Napoli, dopo un finto viaggio, lo sbarca di nuovo presso la stessa città. Ormai fuori di testa, fa ritorno al paese: “Adesso, quando passava per le strade del paese, i bambini, dagli angoli delle case, gli gridavano dietro New York, New York”. Così comincia il racconto di Stiso, presentando il suo personaggio che sullo schermo, nel film La donnaccia, sarà interpretato dall’attore francese Georges Riviére: da questo momento, attraverso un flashback, si recupera tutta la vicenda, che corrisponde, nelle modalità della truffa perpetrata, a quella riportata da Leonardo Sciascia nel racconto Il lungo viaggio, compreso nel volume Il mare colore del vino, che lo scrittore ha pubblicato con Einaudi nel 1973: stessa cosa accade dunque in Sicilia e il gruppo di aspiranti emigranti viene sbarcato su una spiaggia nei pressi di Santa Croce Camerina, nel ragusano, credendo di essere invece arrivati in America. Il racconto di Sciascia, composto, come gli altri del volume, tra il ’59 e il ’72, è posteriore a quello di Stiso, ma, data la diffusione esclusivamente irpina del testo, non si può pensare ad una “copia” da parte dello scrittore siciliano. Si trattava purtroppo di un fenomeno diffuso: nostrani “scafisti” malintenzionati – quando erano gli italiani a emigrare – intascavano somme cospicue senza neanche affrontare la traversata. Sciascia e Stiso devono aver raccolto dalla cronaca giornalistica, o dalla viva voce delle persone, testimonianze del genere. L’analogia tra i due racconti era stata anche da me rilevata a suo tempo parlando di due film di Siano, Lo sgarro e appunto La donnaccia. Paolo Speranza compie però una comparazione più approfondita dei due racconti, che qui riportiamo:
È sul duplice terreno della realtà sociale e del comune impegno politico che è dunque maturata l’inconsapevole quanto significativa convergenza letteraria dei due autori sul tema dell’emigrazione come ‘sogno rubato’. Ognuno, poi, l’ha elaborato secondo il suo stile e la differente personalità. Il lungo viaggio riflette in pieno la cifra narrativa di Sciascia, coerentemente proteso alla ricerca della sintassi e dell’essenzialità linguistica […] e quel suo spirito saldamente razionale, ironico e, spesso, anticonformista e disincantato […]. Nel racconto di Stiso, oltre ad una maggiore partecipazione empatica al dramma del protagonista, si configura una struttura narrativa più ampia e complessa, che ricostruisce tutte le fasi salienti della storia, partendo dal suo esito per ripercorrerla con un lungo flashback. La scelta di un solo protagonista gli consente di approfondire, oltre alla vicenda personale, la psicologia e i sentimenti, restituendogli uno spessore di figura tragica che non si rintraccia nei contadini siciliani di Sciascia. Diversamente dallo scrittore siciliano, il narratore di Andretta sceglie di sorvegliare la sua pur fertile vena ironica e di porla con discrezione al servizio di una storia che – analogamente al racconto di Sciascia – mira a svelare all’opinione pubblica un dramma sociale ed a suscitare una riflessione.
Compito, quest’ultimo, che Stiso affronta anche attraverso la denuncia giornalistica. In appendice, nel volume, viene riportato un suo intervento apparso ne “Il Progresso Irpino” nel 1965, intitolato Il cantiere maledetto e dedicato alla tragedia di Mattmark: un incidente occorso in Svizzera a lavoratori irpini travolti dalla frana di un ghiacciaio mentre sono impegnati nella costruzione di una centrale idroelettrica Stiso punta il dito non tanto contro il paese nel quale gli operai sono immigrati, e cioè la Svizzera, quanto piuttosto contro quello che li ha costretti a cercare lavoro altrove, e quindi l’Italia:
Di certo nemmeno il sacrificio di questa volta, il più importante dopo quello di Marcinelle nel Belgio, sarà di monito al nostro patrio governo: estraneo com’è ad una vera trasformazione democratica della nazione, esso commenterà il tragico accaduto con manifestazioni di rito e con piagnucolose parole; imputando alla fatalità la grave sciagura ed evitando finanche di rappresentarsi che altri lutti del genere possono nuovamente colpirci, se centinaia di migliaia di nostri emigranti lavorano in terre straniere privi di qualsiasi concreta misura di tutela.
L’ottica qui si sposta dal disperato e frustrato tentativo di emigrare, oggetto del racconto di cui abbiamo parlato, alle condizioni di vita e, purtroppo, alle occasioni di morte in terra straniera: anche in questo caso l’emigrazione è un “sogno rubato”. Dalla narrativa, al cinema, al giornalismo, e infine alla poesia. Anche in versi infatti Stiso, da intellettuale appassionato e poliedrico, torna sulla questione dell’emigrazione, come abbiamo visto nei versi citati in precedenza. Una complicità tra politica e poesia che fa dire a Enrico Fierro, nella Prefazione a Questa è una storia vera o forse no che il libro avrebbe anche potuto intitolarsi: “Quando i comunisti erano poeti”.