bertolucci

Prima della Rivoluzione?

«Credevo di vivere gli anni della rivoluzione, invece vivevo gli anni prima della rivoluzione, perché è sempre prima della rivoluzione quando si è come me».

Fabrizio è poco più che ventenne nel 1962: un emiliano come tanti nato alla fine della guerra. Il giovane è convinto, come si è convinti dell’esistenza di un Dio, di essere comunista. La sua ostinazione lo rende ortodosso, sicuro com’è di poter vivere a lungo nel mondo costruito e difeso dai suoi padri. Se il passato è certezza, il presente è inquietudine. I giovani come Fabrizio, pur non sapendo definirla, sanno bene di cosa si tratta: «Una febbre che mi fa sentire la nostalgia del presente».
L’inquietudine, come ci mostra Bernardo Bertolucci in Prima della Rivoluzione, è vuoto identitario, è abbandono della passione, è dolorosa confortevolezza. Arriva quando i modelli del passato crollano ed il futuro si confina nell’indeterminata aura del “poi”. La rivoluzione, seguendo uno strano moto – a volte opposto e contrario a quello dell’inquietudine –, si presenta quando la si smette di aspettare. Si mostra quando il processo storico che l’ha generata è già concluso, quando la sua pars destruens smette di essere terrificante. Gioia e dolore si mescolano nei momenti che precedono una rivoluzione, e la speranza rimane – spesso – vezzo di stolti e avanguardisti.
«Ci vorrebbe un uomo nuovo, un’umanità di figli che sia padre per i loro padri. Lo sai».
Rivoluzione è dunque crisi di identità, smarrimento, abisso. È l’evidente disconnessione tra realtà e vissuto. Rivoluzione è negazione volontaria della propria identità, individuale o sociale che sia: è rigettare i costrutti esistenziali appresi dal passato per costruirne di nuovi. Parole più celebri hanno chiosato: «Codesto solo oggi possiamo dirti/ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Non a caso a comporle fu un altro giovane di ventisette anni che – tra Sarzana e Monterosso, lontano dalla spersonalizzazione urbana – scrisse parole per un tempo di Rivoluzione. Tacciato, a suo tempo, di nichilismo o di qualche nero pessimismo, Eugenio Montale ribadiva in realtà l’esistenza della propria generazione, in gran parte mandata al macello dietro la retorica militarista dei Ragazzi del ’99. Come, d’altronde, potrebbe essere nichilista chi scrive: «Pure, lo senti nel gioco d’aride onde/ che impigra in quest’ora di disagio/ non buttiamo già in un gorgo senza fondo/ le nostre vite randage». Il peso schiacciante di una contemporaneità senza futuro diventa insostenibile. La chiusura di Ossi di Seppia lo dimostra, scritta – non a caso – nel 1924, quando l’egemonia fascista offuscò ogni speranza di avvenire: «Ti dono anche l’avara mia speranza/ A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla/ l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi».
Il genio poetico di Montale non sarebbe stato conosciuto dagli intellettuali del tempo se non fosse stato per Piero Gobetti, un giovane editore alla soglia dei ventitré anni. Anche Piero, in un certo senso, viveva prima della Rivoluzione. Morì a soli venticinque anni per le ripetute percosse inflittegli negli anni dalle squadracce fasciste. Lui aveva intuito, a pochi giorni dalla Marcia su Roma, quanto la vera Rivoluzione fosse lontana: «La “rivoluzione” fascista non è una rivoluzione, ma il colpo di Stato compiuto da un’oligarchia mediante l’umiliazione di ogni serietà e coscienza politica — con allegria studentesca».
Bernardo, Eugenio, Piero sono stati ragazzi del loro tempo, immersi nel loro tempo. Tutti loro, come tanti altri senza volto e senza nome, hanno vissuto gli attimi prima della rivoluzione, si sono sentiti nella necessità di agire ma lontani dal tempo d’azione. Tutti loro hanno creduto di aver vissuto troppo presto o troppo tardi. Tutti loro hanno sperimentato il peso del vuoto e dell’inquietudine, vissuti che – evidentemente – non erano solo topoi novecenteschi. È l’horror vacui contemporaneo, la scoperta di quanto il mondo possa diventare all’improvviso così grande, così piccolo, così ingannevole, così inospitale. È la sorpresa nel vedere come velocemente possa implodere un modello di vita. Tutti loro hanno vissuto la nullità delle città, la falsità del progresso tecnocratico, l’abbandono dell’ideale. Tutti loro hanno qualcosa da insegnare, e noi abbiamo bisogno di capire il nostro presente: È Rivoluzione? Cos’è l’Identità?