Ragnatela

Avevamo parlato a lungo. Con la bocca impastata dal passato ripescavamo dall’acqua volti e cocci tremolanti, attenti a circumnavigare qualsiasi discorso sui nodi che tra noi si intrecciavano e si allentavano. Quando restammo zitti, una ragnatela di silenzio cominciò a intessersi tra le pareti.
Ne spezzò i fili qualche istante dopo. Meglio per me, che ero già pronta a riempire la stanza del fiume verboso di chi non resiste più di trenta secondi ad ascoltare i ticchettii degli orologi, il contrarsi dei respiri. Con garbo – era come un’altra sua pelle, lo vestiva anche nei gesti nudi – incasellò le parole tra il fumo, senza guardarle. Poche sillabe scoccate dalla sua bocca al mio orecchio mi punsero come spilli dimenticati nella gonna. Sembrava le avesse decantate – ogni volta mi versava il vino con una grazia rituale – e le impurità si erano sedimentate, lasciando in superficie una frase rubina.
Mi disorienta se penso al mio smodato bisogno di parole, che chiedevo, parlami, parlami, parlami, ti ascolto, e intanto parlavo io, per dirgli che frustrazione era la sua reticenza, ma ancora stavo parlando io. Invece una frase sola fu sufficiente: i gatti alla finestra annuivano, persuasi di una rivelazione che a me si è schiusa col tempo. Si era depositata sul fondo, e ora mi sorprende tra un sussurro al telefono e una macchia d’inchiostro sulla mano.
«Quante cose da raccontare quando hai qualche anno in più».
Mi fa sorridere perché di anni ne avevamo comunque pochi, ma continua a pungermi dietro la nuca, senza far male. Solo che adesso l’accompagna una risacca di amarezza che mi trascino dietro da un po’ e sembra una rete di pescatori abbandonata a riva.

Quando ci ripenso, mi sembra che la fortuna di avere il mare sotto casa non l’aiuti quando si sente solo: dai flutti risalgono groppi alla gola. Ma dalla finestra avevamo ascoltato il moto delle onde vicinissime come bambini nella conchiglia.