Soggettive impossibili
Circa il punto di vista, nel cinema esistono principalmente due tipi di inquadrature: oggettiva e soggettiva. Se nel primo caso lo spettatore osserva in maniera distaccata, imparziale e (spesso) privilegiata; nell’altro si realizza uno dei più grandi sogni dell’uomo: entrare nei panni altrui. La soggettiva, come molte delle invenzioni relative al cinema, nasce un po’ per gioco: in un corto del 1900 – Grandma’s reading glass – il protagonista si diverte a vedere gli oggetti che lo circondano tramite la lente d’ingrandimento della nonna. Con un mascherino nero circolare quindi si scorge, senza pretesa di verosimiglianza, un canarino, pagine di giornale, un orologio e qualsiasi cosa passi per la testa al protagonista. Con la definizione progressiva delle tecniche – forse – allo spettatore non interessa avere il miglior punto di vista su una situazione, ma ciò che realmente vuole è far parte della rappresentazione. Non (solo) voyeur ma anche attore. Qui la soggettiva in quanto tale inizia a muovere i primi passi. Resta però un problema non di poco conto: come spiegare allo spettatore che può essere parte della recita? O meglio, come abbattere qualsiasi reticenza di tipo etico o morale che possa impedire a un uomo di assumere le sembianze di un altro? In primis tramite l’abolizione della protesi: la soggettiva inizia a non essere mediata da un oggetto come una lente, un buco della serratura o un mascherino. In secondo luogo, tramite il suo inserimento nel cestone della sospensione dell’incredulità: ovvero, se la soggettiva è funzionale alla narrazione, allora rientra nel patto implicito di verosimiglianza stretto fra autore e spettatore. Semel in anno licet insanire. Ultimo e fondamentale tassello: la soggettiva esiste in funzione solo di un’oggettiva speculare. La struttura, grossomodo, è questa: inquadratura del personaggio – inquadratura di un oggetto – ritorno sul personaggio che interagisce con l’oggetto. Se il tutto viene inscenato rispettando i raccordi di montaggio (asse, sguardo, movimento) il gioco è fatto. La struttura “codificata” è così flessibile ed efficace che viene usata senza soluzione di continuità da circa un secolo. Inoltre, man mano che lo spettatore diventa più smaliziato e postmoderno, sono veramente tante le variazioni sul tema che si possono utilizzare. Non a caso la soggettiva è stata spesso incline a ogni tipo di sperimentazione creativa, formale o epistemologica che sia. Un pioniere in tal senso è il solito Hitchcock, che al punto di vista aggiunge l’elemento emotivo. Nei suoi film avvertiamo non solo ciò che vede il personaggio, ma anche ciò che prova. In Vertigo si percepisce il terrore di James Stewart nei confronti del vuoto (per rendere ciò inventò – en passant – una nuova tecnica di ripresa); in Psycho, poi, molti dei personaggi che Janet Leigh vede sono “filtrati” dal suo senso di colpa, e quindi deformati.
La soggettiva, allora, inizia anche a rappresentare stati psicologici più o meno dissociati, come ad esempio nel genere horror. Due esempi su tutti. Il primo è in Profondo Rosso di Dario Argento. Il regista, qui, gioca spudoratamente con la soggettiva. All’inizio del film il protagonista cammina nel corridoio della casa dove è avvenuto l’omicidio. La scena è in soggettiva e mostra lo straniero che, non avendo lucidità sufficiente per capire le dinamiche, passa in rassegna quadri, mobili, pareti. Sulla sinistra Hammings vede uno specchio che riflette il volto dell’assassina nascosta, gira la testa e va avanti. Lo spettatore può vederla (chiaramente!) in faccia, ma – come il personaggio – non può davvero notarla. Più che uno spoiler, un saggio di psicologia. Secondo caso: Halloween di Carpenter. Finiscono i titoli di testa, una persona in soggettiva entra in una casa. Qui si copre il volto (ecco che torna il mascherino per gli occhi) e uccide una donna seminuda. Esce in strada ed è circondato da una folla sgomenta. Controcampo: l’assassino è un bambino. Dato che il piccolo criminale è Michael Myers, incubo di due generazioni, la caratterizzazione del personaggio è perfetta. Adesso, quindi, la strada è in discesa. Se la soggettiva può rappresentare uno stato d’animo, un concetto astratto ed è (più o meno) indipendente da un’oggettiva, cosa vieta di realizzare soggettive dal punto di vista di un’entità incorporea o di un suono?
Si tratta, per l’appunto, di soggettive impossibili: ovvero inquadrature che non hanno un senso logico stricto sensu, ma funzionano nel contesto in cui si trovano. La loro comparsa, ovviamente, non segue un filo cronologico: il tutto va infatti rapportato alla cifra artistica dell’opera e, ahinoi, all’apertura mentale dei produttori. L’esempio più celebre è forse in Vampyr di Dreyer (1932). Alla morte del protagonista, la salma viene messa in una bara con un’apertura quadrata per mostrarne il volto. A una prima oggettiva, che mostra la bara e lo “spioncino”, segue il corteo funebre quasi interamente girato in soggettiva. Si vedono alberi, persone che accompagnano il feretro, candele posate in omaggio. Come può lo spettatore acquisire lo sguardo di un morto? Una sequenza ancora oggi disturbante.
Addentrandosi nello sperimentalismo degli anni Sessanta, sono altrettanti gli esempi che vengono alla mente. Se in Vampyr l’uso artistico della soggettiva era ancora considerabile materia d’avanguardia, i tempi sono abbastanza maturi per istituzionalizzare le infrazioni grammaticali senza curarsi troppo di avvisare lo spettatore. Lo fa, ad esempio, Fellini nel suo film onirico per antonomasia. 8½ inizia con un sogno, ma senza i classici artifici che lo segnalano. Mastroianni è in auto e una semisoggettiva segue i suoi movimenti fino a che non si alza in volo. Qui la famosa sequenza della corda al piede: considerando che all’altro capo c’è Mastroianni stesso, si tratta decisamente di una soggettiva impossibile. Nonostante l’uso strambo della tecnica, però, un dogma è ancora salvo: lo spettatore può assumere solo gli occhi di un umano. Perlomeno fino a Kubrick. In 2001: Odissea nello Spazio, gli astronauti iniziano a sospettare di un’avaria nel computer di bordo, il celebre (e inquietante) HAL 9000. Sapendo della sua astuzia e onnipresenza, i due condannano a morte la parte intellettiva del computer. Proprio quando gli astronauti si sentono al sicuro, e lo spettatore con loro, Kubrick propone un controcampo e azzarda l’inimmaginabile. La soggettiva, questa volta, è proprio quella del computer. Per fugare ogni dubbio, il regista ricorre al vecchio trucco del mascherino per simulare la visione monoculare del computer e, con una serie di riprese a schiaffo, cerca di interpretare il labiale dei due. Dov’è la genialità? L’autore di 2001 non si limita a una ripresa frontale, algida, ma simula l’angoscia del bambino che spia nervosamente i genitori discutere dal buco della serratura. Lo spettatore sprofonda nella poltrona.
Con lo sdoganamento del postmoderno e la relativa morte di un certo cinema d’arte, la soggettiva, al pari di qualsiasi regola cinematografica, diventa convenzione da abbattere e strumento con cui giocare.
Il maestro delle “soggettive postmoderne” è Quentin Tarantino che fra i suoi marchi di fabbrica (oltre ai piedi, ovviamente) annovera la trunk shot o ripresa dal bagagliaio. In linea di massima si tratta di una soggettiva al contrario: prima mostra lo sguardo di qualcosa o qualcuno nel cofano dell’auto verso i suoi aguzzini e poi c’è il controcampo che risolve la tensione narrativa. Oltre a essere esteticamente particolare, la trunk shot ha diverse funzioni: ingigantisce l’aura di fascino intorno ai protagonisti ripresi dal basso; interrompe la continuità logica con la scena precedente; ma soprattutto propone un’ellissi narrativa molto interessante, dato che non è assolutamente scontato che nel bagagliaio ci sia qualcuno. Abbattuta un’altra barriera: HAL, seppur non umano, era una macchina senziente, a differenza di qualsiasi cosa ci fosse nelle auto di Tarantino.
Sulla stessa linea, o meglio sulla stessa onda, c’è Mathieu Kassovitz che, ne L’Odio, pensa a una “soggettiva del suono”. Per mostrare la banlieue dove vivono i tre protagonisti da una prospettiva insolita, la sequenza segue la musica che parte da una finestra aperta e si propaga in strada. La ripresa è infatti ondeggiante, come se si trattasse del volo di una mosca.
Grazie anche alla tecnologia, quindi, le opportunità di sperimentare sono davvero tantissime. Possibilità e paradosso, però: se da un lato alcune riprese sono diventate tecnicamente possibili, l’uso creativo della soggettiva nel cinema è andato a scemare. La ragione è semplice ed è strettamente collegata al motivo per cui, a inizio secolo scorso, si è avvertita la necessità di assumere lo sguardo altrui. L’intelligenza artificiale, la commercializzazione della realtà virtuale e la diffusione di strumenti come visori e droni hanno scalzato l’antico primato del cinema. Non ha più senso affidarsi all’arte per diventare qualcun altro, se posso riuscirci con gli occhiali magici e l’applicazione giusta. Nulla di cui spaventarsi, però: cambia il come, ma il perché è sempre lo stesso.