Sradicarsi. La stagione di Marco Raio

Quando ho ricevuto il libro di Marco Raio, circa a metà del mese di ottobre, ero prossima a una partenza; un viaggio breve, di pochi giorni, nei luoghi della mia infanzia e adolescenza. Ho cominciato a leggere La stagione (Bompiani, 2024) alle prime luci di una domenica tipicamente autunnale, senza nubi, che ho trascorso spostandomi dall’ombra alla luce, dalla luce all’ombra, sfiancata dal clima mite, dall’ignavia delle stagioni di mezzo. Niente a che fare con l’aria soffocante di agosto, con i corpi bruciati dal sole, con il mare placido dei mattini chiari d’estate. Di fatto, questo romanzo, io, l’ho letto fuori stagione. Il titolo, vago, incerto, è in realtà inequivocabile; perché a Napoli “la stagione” è soltanto una, la più breve e la più crudele.
Più che la narrazione di un viaggio, La stagione è il racconto di un ritorno; del tempo che si frantuma, diventa polvere che cade sui ripiani delle case ingiallite delle nonne; dei ricordi stipati uno sopra l’altro e pericolanti, crollano; della lotta di chi resta e sopravvive a chi, invece, sta per andare, e non tornerà. Nel momento in cui scrivo, ho terminato il romanzo da poche decine di minuti e come per chi è stato troppo tempo sott’acqua, in apnea, questa colata di parole è il mio modo di tornare in superficie e recuperare il respiro. È anche del mare che racconta questo romanzo, della forza ribelle dell’acqua che trascina in sé, poi restituisce; del carattere mutevole della sua superficie e delle sue sempre immobili, nere profondità. È anche il carattere di Tommaso, nel quale ho riconosciuto i miei vent’anni, la smania di emergere a ogni costo contro lo schiaffo dell’inadeguatezza, tra il rossore e la vergogna – “Da quel momento sentii la fitta. […] La fitta che segnava la differenza tra me e loro. […] Piangevo perché avevo voluto provarci. Piangevo perché non potevo riuscirci”.
È Tommaso a guidarci, a farci spazio per poter passare tra i ricordi, a presentarci Viviana e Bruno, i suoi genitori, che chiama sempre per nome, spogliandoli degli abiti di scena, restituendoci la loro nudità. Ed è Tommaso che ci presenta Positano, le sue spiagge, la sua rampa di case a colori, Positano che partecipa, vivente, ai ricordi che si materializzano nella parola, Positano che conserva nel suo ventre terracqueo quello che è stato e la promessa di ciò che sarà. Ogni anno, ogni ritorno, è un tacito accordo per un avvenire breve ma gravido di possibilità, di occasioni che, mai afferrate, è il momento di cogliere, prima che un temporale estivo, improvviso, repentino, scolori ogni proposito. Bisogna allontanarsi dai luoghi, dalle abitudini, dalla ripetitività; dalla città, dalle persone. Bisogna sradicarsi. Ma è una falsa partenza, una illusoria sospensione: chi parte, trascina dietro di sé se stesso. La città furiosa, il lavoro, l’obbligato movimento inerziale sono dei distrattori contro il dolore; invece, nella casa di Positano, depositaria del tempo passato, il dolore si ingrandisce, assume un aspetto mostruoso. I timori, la nostalgia, le ferite si amplificano, esacerbandosi, rivoltandosi, recalcitranti. Per Viviana, Positano è sua madre, la esuberante nonna Tullia. Vìvia che si prende cura di lei, Vìvia che la ascolta paziente al telefono, Vìvia che ha gli occhi velati di malinconia, Vìvia che fa i conti con la prossimità dell’addio a sua madre. Di quello che era prima di diventare madre di Tommaso, prima di dover inventarsi madre di sua madre, sappiamo poco; conosciamo Vìvia che obbedisce devota ai suoi doveri di figlia malgrado il desiderio silente di una tregua, la vediamo attraverso gli occhi di figlio di Tommaso, che in Positano cerca la novità, il fulgore estivo, e invece si trova stretto tra i ricordi di Bruno e Viviana, tra suo padre, nervoso, insofferente – è lui a dire a Viviana: “Domani torniamo a Napoli. Tanto è tutto inutile. È una falsa separazione.” – e sua madre, di un’eleganza senza ricercatezza, dolce in maniera innata, di cui Tommaso, tra queste pagine, al suo modo schivo e ritroso, si prende cura. Tutto passa sotto lo sguardo di Tommaso, sotto i suoi occhi inquieti Positano diventa nostalgica, profuma di antico, di promesse spezzate, di occasioni interrotte. Tommaso si lascia andare al tempo, poi all’ultimo momento lo piega alla sua volontà, indietreggia, si ritira, come il mare. E invece vorrebbe farsi sballottare dalle onde come quando era bambino, ritrovare quella incoscienza, quella libertà, quella Positano ancora inconosciuta, ancora piena di speranze, di avventure, di scoperte, ancora intatta, risparmiata dagli effetti degli anni che avanzano. Tommaso, con i suoi genitori, tornerà al punto di partenza, a Napoli, a quello che aveva lasciato, ai rimorsi, e scoprirà che quello che aveva agognato, desiderato, cercato, lo attendeva lì. Tornerà alle radici.
Marco Raio ci dona un esordio sorprendente, che trasporta il lettore in uno spazio-tempo che, dapprima ignoto, a poco a poco diventa familiare; alla fine sembra di essere stati davvero a Positano, sulla spiaggia di Scotti, all’Internazionale, tra le vie sconosciute ai turisti di passaggio, grazie a una penna precisa, dettagliata, ma che descrive con realismo sentimentale, con le parole proprie dell’esistenza, la quale tra queste pagine si scopre caduca, friabile, attraversata dal tempo e dal suo inganno.