Trofeo di Emanuela Cocco: il male visto dagli oggetti

Quanto resta impregnato di noi nelle cose? Quanti frammenti di esistenza si incrostano sulle setole di uno spazzolino, sui denti di una forchetta, sulle federe di un cuscino? Gli oggetti ci osservano, ci scrutano, ci vivono muti. Cosa racconterebbero di noi se potessero parlare? Se questi spettatori silenti prendessero la parola quale narrazione stupefacente pronuncerebbero, quali segreti conoscono di noi? Ci aggiriamo in mezzo a loro, destinandoli alla passività, dimenticando che siamo abitati da loro, che abitiamo il mondo con loro: essi non sono sfondo ma spazio della memoria.
In Trofeo, la novella o romanzo breve di Emanuela Cocco per Zona 42 edizioni, la voce narrante è una gonna. Lacerata, sbrindellata, insanguinata è lei il trofeo che racconta la vita e la morte. Serrata in un cassetto oscuro, in compagnia di altri trofei, testimonia l’esistenza della sua indossatrice di una sola sera, ne richiama in vita le esitazioni, le scelte, le aspettative e la fine orrenda. Dialoga con altri testimoni di altre vite, una ciocca di capelli, un ostinato renitente sonaglio, un fermaglio e ci conduce nella mente omicida di colui che colleziona prede umane e feticci.
È un viaggio nel buio e nell’orrore. Un itinerario nel vuoto e nel nulla. Gli oggetti intercettano la mente del maniaco omicida, si connettono con questa e vi girano dentro, come se fosse un labirinto che custodisce un segreto terrificante, vogliono risalire all’origine del male, al suo cuore pulsante, al segreto ancestrale. Eppure trovano solo il nulla: le stanze sono vuote. È la desolazione del male, la negatività alla potenza, senza giustificazione e senza causa, “la banalità del male”, il nichilismo non negoziabile, oltre ogni dialettica possibile: pura assenza.
Solo le parole sembrano essere un fragilissimo tentativo di resistenza, di opposizione. Le parole delle cose. La gonna conquista il linguaggio, lo scopre, tentenna, lo sente franare e sfuggire. Ad ogni parola appresa corrisponde un frammento di autocoscienza raggiunta: parlare è conoscersi. Il libro è composto di step semantici (“disincanto, illusione, presagio, amore, ecc”) che rappresentano un cammino iniziatico della voce narrante. Non è un caso che “l’umano” del racconto non parli mai, che giaccia svuotato di parole, che vomiti, picchi e violenti, gesti biologici e bestiali deprivati del linguaggio, ovvero della coscienza. Il maniaco è cosa, le cose sono umane. Gli oggetti si sono impossessati della narrazione e sono divenute memoria, racconto della vita. L’uomo ha smarrito le parole e si è degradato a materia purulenta che tutto desidera corrompere.
Il serial killer oltraggia la sua ultima vittima penetrandone la bocca, simbolo della volontà belluina di farla tacere, di profanarne il corpo e le parole, ossia la dignità di donna, di essere umano.
Emanuela Cocco in Trofeo intraprende una azione letteraria integrale, rischiosa e audace: posizionare la voce negli oggetti. Il punto di vista scelto e la straordinarietà della vicenda narrata espongono la materia al rischio dell’inverosimiglianza, della favola gotica che fluttua nello spazio del surreale. Eppure l’autrice riesce, attraverso un controllo rigoroso della lingua e della sintassi, a spostare il lettore nella dimensione realistica dell’incatenamento, del perturbamento emotivo e esistenziale. I periodi si susseguono secchi e stringenti, mai ridondanti, incalzanti e precisi, folgorazioni linguistiche che aderiscono intimamente alla complessità disturbante che intendono narrare, scovare, individuare.
La prosa di Emanuela incede per sottrazione, taglia via di netto tutto ciò che è ridondante, superfluo, sentimentale e lascia le parole e gli eventi nella nudità, unica via possibile al tentativo di afferrare ciò che è oscuro e sfugge per non farsi dire. Cocco è scrittrice di razza e conosce gli inganni e gli artifici dell’artigianato letterario, che lei oltrepassa con la padronanza dell’autrice consapevole della propria poetica grazie a una prosa scintillante e asciutta.
Emanuela Cocco scende dentro ai meandri dell’animo e della solitudine, che ognuno porta con sé nel mondo e nella vita, intessendo la narrazione dell’oscurità di essere con accensioni esistenziali che dicono la fragilità degli esseri umani.