L’ultimo dei provocatori: sull’estetica di Gaspar Noé

È un anonimo giovedì di aprile e il sole è appena calato. Una folla, che – per lo stupore dei turisti – a tratti invade la strada, è in attesa fuori a un noto cinema romano. Si presenta Vortex di Gaspar Noé con la partecipazione dell’autore e di Dario Argento, insolito protagonista del lungometraggio. Chi conosce il regista ha poco da sorprendersi: il franco-argentino, con soli sei film all’attivo, è stato capace non solo di crearsi una base di spettatori affezionati, ma anche di inventare un nuovo genere. O, perlomeno, diffondere la sua idea di cinema. Noé, classe 1963, si fa conoscere al Festival di Cannes all’inizio degli anni Novanta. Il suo primo mediometraggio – Carne – è solo il prologo della sua tormentata relazione con la Croisette. La trama è molto semplice: un macellaio parigino si innamora di sua figlia. Alle sue prime mestruazioni, il padre si convince del fatto che la figlia sia stata vittima di stupro e – per tale ragione – accoltella l’operaio di un cantiere vicino, confondendo così il sentimento paterno con quello morboso della gelosia. È in questo ignorato mediometraggio che sono già presenti alcune delle sue caratteristiche stilistiche. Carne è anticipato, infatti, da alcuni cartelli che riportano la trama del film e – tra le immagini della macellazione di un cavallo – chiede ai più giovani di uscire dalla sala per via delle scene cruente. In altre parole Noé non si preoccupa minimamente di abbattere la quarta parete: questa non è mai stata costruita.
Flash-forward al 2002. Sempre al Festival, Noé presenta Irréversible, probabilmente uno dei suoi lavori più noti. Il film è un ossimoro già dal titolo: il fulcro del film è uno stupro in piano sequenza, che è di per sé un atto irreversibile. Ma l’artificiale finzione cinematografica mette in scena prima la ricerca dei colpevoli e poi la barbara violenza. Lo spettatore, che arriva alla fine del film frastornato da luci al neon, inseguimenti in discoteca, colonna sonora techno, long take e riprese irreali con la steadycam, ha una prospettiva ottica ideale (fattore che incoraggia la visione) solo per assistere ai nove minuti di stupro. È sicuramente sadismo allo stato puro, ma d’altra parte il tentativo di far immedesimare lo spettatore in una costruzione irreale è riuscito. Non solo. Chi assiste al film è chiamato a una scelta morale: assistere da voyeur alla violenza su Alex (Monica Bellucci) o girare lo sguardo? A giudicare dalle reazioni sdegnate, la scelta per molti deve essere stata abbastanza combattuta. Il tema del voyeurismo irreale in un’atmosfera psichedelica ritorna qualche anno dopo in Enter the Void (2009). Il progetto è ambiziosissimo: il film (lungo ben 160 minuti) è integralmente girato – almeno a livello concettuale – in soggettiva, con tanto di battito di ciglia. Lo spettatore si identifica in Oscar, uno spacciatore appena arrivato a Tokyo ossessionato dal libro tibetano dei morti. Ucciso in una retata della polizia, Oscar fluttua incessantemente per le strade inondate dalla luce dei neon, impersonandosi occasionalmente nei personaggi. Il suo peregrinare, realizzato tecnicamente con un certo numero di gru e case scoperchiate, si arresta – per esempio – prendendo possesso del corpo del cliente che giace con sua sorella prostituta nel momento dell’amplesso. Dimenticando per un attimo il fantasioso incesto e il finale alla Odissea nello Spazio, Noè utilizza in modo assolutamente innovativo e virtuoso il mezzo cinematografico. Abbattendo ogni tentativo di categorizzazione della ripresa (né oggettiva, né soggettiva) riesce efficacemente a immergere il suo spettatore in un flusso di suoni e immagini al neon che – per chi ha il coraggio di arrivare al finale – diventa sempre più rarefatto, fino ad arrivare al livello di una graphic novel. Al di là del misticismo orientalista, e al di là dell’estetica mutuata dai lavori dei registi asiatici, Noé è capace di portare lo spettatore in stato di catarsi profonda e introdurlo in un mondo fittizio (quello della morte) che è destinato letteralmente a sgretolarsi. Mente chi – alla fine del film – non abbia avvertito un senso di angoscia. Un utilizzo così innovativo della fotografia e della macchina da presa ispirerà poi anche alcuni maestri contemporanei del neon: su tutti Harmony Korine e Nicolas Winding Refn. Enter The Void, probabilmente, riesce anche ad affrancare lo stesso Gaspar Noé dalla cosiddetta corrente “New French Extremity”, che pur non scherza sugli eccessi visivi e concettuali. In altre parole il regista è davvero “seul contre tous”, tanto per citare un altro suo lavoro. L’autore franco-argentino, nonostante il relativo isolamento impostogli dalla critica, rilancia quattro anni dopo con Love (2015). Il film, probabilmente il meno originale fra i suoi lavori, porta in primis lo spettatore a chiedersi quale sia il confine tra arte e pornografia. È condivisa, in effetti, l’estetica del film pornografico (per giunta in 3D), ma senza mai sposarne i canoni. Sempre fra luci al neon (rigorosamente di color rosso) e ricordi in colori freddi desaturati, Noé ripercorre il percorso affettivo di un giovane padre che non ha mai dimenticato l’eccentrica prima fiamma. Love è quasi un film manifesto per Noè, sia per l’accentuazione di alcune tematiche sia per il citazionismo “allo scoperto”. Il protagonista (che è un aspirante regista) prima dice di voler fare film fondati su sangue, sperma e lacrime e poi, rivolgendosi alla fidanzata, si propone di illuminarla poiché non ha mai visto Odissea nello Spazio («You’re ignorant. I need to show you the light»). Il cinema di Noé diventa quindi sempre più esplicito nei contenuti e manieristico nello stile. La patina underground dei suoi primi film si dissolve lentamente per far posto sia all’omaggio testuale ai maestri dell’horror, sia per continuare ad approfondire il tema dell’irrealtà della vita. Climax (2018) ne è un esempio perfetto. Affiancato dal collega Benoît Debie, Noé prende in prestito tutti i canoni possibili e immaginabili dai suoi horror movie preferiti. Il gruppo di amici isolato da una tormenta di neve, la progressiva perdita di razionalità, il body horror, la “follia techno”. Anche in questo caso la pellicola è montata al contrario: scorrono prima i titoli di coda e la scena finale e poi inizia il film vero e proprio. Climax, secondo i cartelli mostrati all’inizio (in cui l’ironia si spreca) è «un film francais et fiere de l’etre». Ma al di là della provocazione sovranista, l’introduzione ricorda soprattutto che «vivre est une impossibilite collective»: un messaggio che fa quasi sorridere dato che – non essendo mai stato distribuito in Italia – molti hanno potuto vederlo solo in piena pandemia. Segue poi una seconda introduzione da mockumentary (il confine tra vero e falso è abbastanza labile) in cui si trova l’occasione per mostrare una pila di videocassette e libri. Tra le citazioni più rilevanti c’è Possession di Andrzej Żuławski (omaggiato esplicitamente più avanti nel film), Salò di Pier Paolo Pasolini, Suspiria di Dario Argento, Un Chien Andalou di Luis Buñuel (la cui metafora dell’occhio tagliato è centrale in tutta la sua filmografia). Interessanti anche i libri: Nietzsche di Stefan Zweig (solitudine, follia, isolamento) e Le metamorfosi di Franz Kafka (repulsione, emarginazione, mostruosità). In Climax, quindi, si cerca di fomentare l’euforia dello spettatore in tutti i modi: alcuni riusciti, altri meno. Resta il fatto che la sequenza iniziale vale probabilmente tutto il film. Arriva poi la pandemia, la chiusura e la paura della morte. È inevitabile che, al di là del vissuto autobiografico, questi temi entrino nella cinematografia di Noé. Vortex (2021) è probabilmente il suo film più ambizioso e rischioso. Non ci sono più colori al neon, stupri e donne incinta prese a calci, ma la semplice furia naturale di due corpi che – lentamente – si avvicinano alla morte. Vortex è la storia di una coppia composta dalla grande Françoise Lebrun e Dario Argento, maestro artistico del regista francese. La prima è una psichiatra malata di Alzheimer, il secondo un critico cinematografico malato di cuore. L’introduzione è infatti – allo stesso tempo – spietata e anticipatrice: «A tutti quelli il cui cervello si decomporrà prima del loro cuore». I protagonisti sono concettualmente e fisicamente separati dallo split screen: Gaspar Noé ha girato ben due film in uno, restituendo un effetto incredibile. Il regista non si accontenta più di giocare con le regole del tempo e della consequenzialità, ma attacca frontalmente la grammatica del cinema. Se l’inquadratura è l’unità minima del linguaggio cinematografico, le due che ci vengono mostrate acquistano senso solo se affiancate. Con buona pace dei manuali di regia. Al di là della dolorosa separazione “in vita”, che è prima di tutto estetica, c’è un’attenzione maniacale agli oggetti della coppia, al loro passato, ai loro corpi, alla spietatezza del tempo che passa. Non a caso il riferimento cardine per questo film è Carl Th. Dryer: il maestro danese è citato esplicitamente per Vampyr (la soggettiva “del morto”) e più subdolamente per La passion de Jeanne d’Arc. È presto per dire se la scommessa sia stata vinta o meno, ma ancora una volta l’ultimo dei veri provocatori ci ha dato una lezione di vita: «La vie est un rêve dans un rêve». La vita è un sogno nel sogno.