Uno scandalo che dura da diecimila anni

A distanza di ventisei anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1971, Elsa Morante comincia la stesura del suo terzo romanzo: La Storia. Tre anni dopo, il 20 giugno 1974, il romanzo viene pubblicato da Einaudi, non senza timori e reticenze: per ferma volontà dell’autrice, la prima edizione de La Storia appare sul mercato editoriale unicamente in edizione tascabile, nella collana Gli Struzzi, al prezzo irrisorio di duemila lire. La frase che Morante pone in epigrafe chiarisce in poche parole straniere lo spirito morantiano e i propositi de La Storia: “por el analfabeto a quien escribo”. Cesare Garboli, in uno speciale Rai dedicato alla scrittrice, andato in onda nell’anno di pubblicazione del romanzo, spiega che in Morante vi è “un temperamento di tipo leopardiano” in cui coesistono “un massimo di pessimismo materialistico e un massimo di ottimismo vitale”; numerose furono le stroncature a La Storia, tra cui quella dell’amico Pier Paolo Pasolini, e celebre è la chiusa della recensione di Rossana Rossanda: “Vendere patate è meglio che vendere disperazione”.

Un giorno di gennaio dell’anno
1941
un soldato tedesco camminava
nel quartiere di San Lorenzo a Roma.
Sapeva 4 parole in tutto d’italiano
e del mondo sapeva poco o niente.
Di nome si chiamava Gunther.
Il cognome rimane sconosciuto.

Il 1941 è la prima tappa de La Storia; il romanzo narra sette anni, fino al 1947. Nel gennaio del ‘41 la guerra è cominciata da poco più di un anno e tutti, Ida Ramundo più di ogni altro, ignorano gli ingranaggi oscuri del conflitto vivendo in attesa e senza domande. Ida è una maestra di scuola elementare, vedova ed ebrea da parte di madre; San Lorenzo è il quartiere dove vive con suo figlio Nino, adolescente teppista che il 7 gennaio del 1941 (“Era finita ieri l’Epifania “che tutte le feste si porta via” …”), per un caso fortuito, non è a casa. Un giovane soldato tedesco di passaggio, ubriaco e nostalgico, violenta Ida sul divano-letto dove Nino dorme abitualmente e la abbandona lì, trasognante e inerme. Dalla violenza del soldato Gunther e dal corpo dimesso e cadente di Ida, nascerà, inatteso, Giuseppe.

GIUSEPPE FELICE ANGIOLINO
NATO A ROMA IL 28 AGOSTO 1941
DA IDA RAMUNDO VEDOVA MANCUSO
E DA N.N.

Mentre Ida, detta Iduzza, vive nella clandestinità e nel terrore a causa del suo stato di ebrea, Giuseppe, detto Useppe, salvaguardato dalla curiosità invadente dei condomini, spesso si trova solo, in attesa che la maestra Ida torni dalla scuola. L’appartamento di San Lorenzo è per Useppe tutto il mondo conosciuto; nel suo microcosmo di bambino, sono ttelle (stelle) anche le fioche lampadine di casa e i calzini neri stesi ad asciugare, dòndini (rondini) in volo; sembra che viaggiando a gattoni sul pavimento di casa, Useppe scopra continenti che si direbbero mai esplorati da nessun altro prima, tanto è lo stupore che lo accompagna nelle sue avventure fantastiche.
È dalla nascita di Useppe che ne La Storia avviene la scissione di ciò che si è detto ottimismo e pessimismo, Bene e Male – ovvero la radice della polemica intorno al romanzo. Il lettore che affronti per la prima volta La Storia deve prepararsi alla compresenza di influssi divergenti che convivono, ma in attrito, all’interno della narrazione. Morante è romanziera ottocentesca trapiantata involontariamente nel turbinio sociale e culturale del Novecento, tra sperimentalismi e tecniche narrative condotte all’estremo, tra la vacuità e il senso del tutto. A dire il vero, anche Morante è eccedente, estrema ma in una condizione di anomalia, di estraneità rispetto al clima culturale in cui si trova – difatti, a differenza di molti intellettuali del suo tempo, Morante è distante e diffidente dalla partecipazione alla vita pubblica; la sua unica voce è la letteratura, la parola scritta. Nel romanzo, unico tra i quattro della scrittrice, affine forse solo al primo Menzogna e Sortilegio (1948), Morante mescola, in un solo incantesimo e con la superiorità di una vera scrittrice, registri linguistici, stili narrativi, intreccia storie di vivi e rievoca le vite dei morti, fa parlare gli animali, interviene lei stessa in prima persona. È solo nella scrittura che Morante risolve se stessa e la sua esistenza, è alle pagine che lei consacra la sua vita, l’esperienza della donna Elsa prima che della scrittrice, di individuo partecipante, appunto, alla Storia. Tuttavia, la sola sfortuna de La Storia è stata quella di essere stato scritto e inserito nell’orizzonte del Neorealismo. Se da un lato è innegabile l’aderenza del romanzo alla realtà e l’impianto talvolta cronachistico del racconto (Morante fu ispirata da un fatto di cronaca), dall’altro è impossibile non riconoscere ne La Storia la peculiarità della narrativa morantiana. Morante è maestra della trasfigurazione della realtà e, soprattutto, all’interno delle sue storie vi è una pluralità, una sovrapposizione di sguardi suggerita dalla consapevolezza dell’esistenza di molteplici e differenti visioni e interpretazioni del mondo in un solo istante – ne L’Iguana, Anna Maria Ortese, ammiratrice di Elsa Morante, scrive: “Purtroppo, non si tiene conto che il reale è a più strati”. Ciò che per tutti è uno sputo, per Useppe è una stella e nient’altro che quella; una prospettiva donchisciottesca in cui ciò che si vede, anche quel che si crede di vedere, esiste ed è vero. Ed è su due principali livelli della realtà, dunque, che si srotola l’azione narrativa: lo sguardo infantile, limpido e puro di Useppe e la descrizione dello stato effettivo dell’Italia, in particolare della città di Roma durante gli anni sanguinosi della guerra. A questi, si affianca la dimensione onirica, il sogno che, per definizione, si oppone alla realtà e che, infatti, si manifesta a Ida come premonizione, presagio oscuro, annuncio funesto.
Morante riporta ne La Storia il primo bombardamento su Roma, nel quartiere San Lorenzo, nel luglio del 1943.

Il loro caseggiato era distrutto. Ne rimaneva solo una quinta spalancata sul vuoto. Cercando con gli occhi in alto, al posto del loro appartamento, si scorgeva fra la nuvolaglia del fumo, un pezzo di pianerottolo, sotto a due cassoni dell’acqua rimasti in piedi. Dabbasso delle figure urlanti o ammutolite si aggiravano fra i lastroni di cemento, i mobili sconquassati, i cumuli di rottami e di immondezze. Nessun lamento ne saliva, là sotto dovevano essere tutti morti. Ma certune di quelle figure, sotto l’azione di un meccanismo idiota, andavano frugando o raspando con le unghie fra quei cumuli, alla ricerca di qualcuno o di qualcosa da recuperare.

Intanto Nino è al fronte e Ida, perso il poco che le restava, con Useppe su di un fianco, si incammina verso Pietralata, in un ampio caseggiato adibito a rifugio per sfollati. Sono le pagine del romanzo più struggenti e più vitali, virtuose ed eroiche, a partire dalle quali si può meglio comprendere perché Elsa Morante sia stata accusata di lucrare sul dolore, di consegnare una narrazione umiliante e retorica, di “vendere disperazione”; capiamo il motivo dello scandalo. Capiamo che La Storia è stato – ed è – un romanzo divisivo perché mai compiacente, perché registra fedelmente, senza edulcorarlo né minimizzarlo, il risultato del potere avventatosi sui più deboli. Nello stanzone di Pietralata si vive gli uni sugli altri, si ascolta il grammofono, talvolta si festeggia malgrado il frastuono della distruzione e degli spari, malgrado le atrocità provenienti da un mondo che, sotto la protezione del ricovero di Pietralata, sembra remoto. Qui, le voci esterne giungono attutite, confuse; per ignoranza o per ripugnanza, le vittime inconsapevoli della Storia resistono ai giorni ignare, con il solo proposito, radicato nel cuore, di vivere, malgrado tutto. I personaggi di Morante sono vinti novecenteschi educati alla lotta per la sopravvivenza dalle prove che la Storia sottopone agli innocenti, agli umili che Morante sceglie quali destinatari della sua opera e che la accomunano ai grandi romanzieri ottocenteschi – Dickens, Dostoevskij. Chi lotta, inevitabilmente, al contempo, resiste; e i morenti, che al limite tra la vita e l’ignoto invocano la madre, implorano l’estrema salvezza, il riparo dalla nostalgia. La vera lotta è pratica ed elementare: concerne la fame, il sonno, la paura. E l’amore non dato e quello strappato via dalla violenza. E il dolore per l’ingiustizia subita, e il rimpianto del passato che non è più. Nello stanzone di Pietralata vive anche la superba gatta Rossella, ammirata da Useppe; un giorno, partorisce e abbandona il suo cucciolo agonizzante su un letto di paglia insanguinato.

Pareva strano che quel filo di voce (unico segno di presenza – si può dire – dato da lui nel mondo) mantenesse una resistenza simile: come se dentro quell’animalino impercettibile, e già segnato fino dal principio, fosse contenuta una volontà di vita enorme.

In Useppe, “segnato fin dal principio”, vi sono, definitive, la colpa e la sconfitta della Storia. Useppe sembra riconoscere l’orrore della guerra soltanto dopo il conflitto, quando sono rese note le atrocità dei campi di sterminio e i giornali diffondono foto di prigionieri, morti, cavie, camere a gas e forni crematori. Intanto, Ida e Useppe si trasferiscono prima in una stanza nel quartiere Testaccio e, infine, in un appartamento in affitto. Sono quasi tutti morti. Anche Nino, in un incidente stradale, se n’è andato. Di rado Ida torna a quel giorno di gennaio del 1941, al peso di quel corpo schiacciato contro il suo, al blu violaceo degli occhi che sono quelli di suo figlio; torna più spesso, invece, come molti personaggi del romanzo, al tempo lieto dell’infanzia, e ricorda le crisi di cui soffriva, gli attacchi di quel male inaudito, forse una malattia che già andava segnando la sua vita senza ricordare che, quel giorno di gennaio di pochi anni prima, sul divano-letto della sua casa di San Lorenzo, quel male incurabile era tornato in lei con la stessa spietatezza, prosciugandole la volontà e le forze e trasferendosi, come un morbo, nel suo ventre già fecondato, già vita in potenza. Elsa Morante mai indica concretamente, in parole, il male di Ida: è l’ultimo tentativo di restituire un’altra realtà. Anche Useppe, durante il dopoguerra, viene colpito dallo stesso male, Il Grande Male, come lo definisce Morante – un’astrazione, che, come tutto ciò che non appartiene ai sensi, può significare tutto e niente. Il Grande Male, di cui Useppe muore, è la Storia che maledice le vite degli innocenti, è la nevrosi di Ida che, dilaniata dalla morte di Useppe, consumerà gli ultimi nove anni della sua vita in manicomio. La guerra restituisce solo la morte, e il silenzio desertico della fine ne accresce il riverbero straziante; tutti, “i sommersi e i salvati”, hanno perso qualcosa, qualcuno, e loro stessi. Coloro che restano, sono anch’essi caduti, sconfitti, costretti a vivere in città-scheletro una vita senza futuro, non più in attesa di una salvezza ma anch’essi di una tregua del corpo, perché almeno “piccoli, cresciuti o grandi, giovani, anziani o vecchi, al buio si è tutti uguali”.
La Storia non è un romanzo della disperazione, La Storia è “un’azione politica” a favore di coloro che non hanno voce, è il lungo racconto della Speranza che si arrende dinanzi all’orrore, dinanzi alla frase che Morante ha scelto e voluto come sottotitolo del romanzo e che Einaudi ha rimosso dalle copertine: “Uno scandalo che dura da diecimila anni”. E dura tuttora, nel silenzio colpevole dell’umanità.